Come di Bergamo ne esiste una “di sopra” e un’altra “di sotto”, anche di Khan Yunis ce ne sono due: una “città”, l’altra “campo profughi”. Nessuno che non sia palestinese le distinguerebbe, solo una strada le divide e i marciapiedi da una parte e dall’altra sono – anzi erano – uguali.
I fantasmi che stanno tornando da Rafah, dove erano fuggiti un paio di mesi fa, riconoscono una Khan Yunis dall’altra. Dalle macerie contorte sanno dividere il campo profughi dalla città e ritrovare i resti delle loro case. Tra un longherone e un pezzo di muro annerito tireranno una tenda; distenderanno nella polvere i materassi tolti dalla polvere di Rafah, e cercheranno di sopravvivere come miracolosamente stanno facendo da sette mesi. Se fosse possibile intervistarne uno, certamente direbbe questo: “Se devo morire di fame preferisco farlo a casa mia”.
Casa per la maggioranza dei palestinesi è un’iperbole ma esprime un significato profondo. La gran parte dei profughi che in questi giorni stanno tornando alle loro macerie di Khan Yunis erano già profughi dalla nascita: discendenti – più o meno la sesta generazione – dei palestinesi fuggiti o scacciati nel 1948, quando nacque lo stato d’Israele; sfollati da Khan Yunis a Rafah durante l’invasione israeliana e ora tornati nel luogo del loro esilio, diventato casa per forza di cose.
Fra i pochi averi che portano con se in ogni spostamento, c’è una lunga chiave arrugginita. E’ quella con la quale nel 1948 i loro padri avevano chiuso per l’ultima volta la porta di casa. Quella vera. “Non diamo la colpa ai suoi assassini”, aveva detto Moshe Dayan nel 1956, partecipando al funerale di un israeliano rapito e ucciso dai palestinesi di Gaza. “Da otto anni vivono nei campi profughi e davanti ai loro occhi abbiamo trasformato le terre e i villaggio dove loro e i loro padri hanno abitato”. Dayan aveva passato la vita a combattere i palestinesi ma questo non gli impediva di riconoscere il loro diritto di resistere all’occupazione. Oggi un profugo di 12 anni che lancia una pietra contro una camionetta blindata israeliana, è un terrorista.
Sono i Mukhayyam,i profughi dei campi. Nell’universo palestinese rappresenterebbero una cultura a parte se la Palestina fosse uno stato. Invece la quasi secolare, disperata e largamente fallimentare lotta di liberazione nazionale, azzera le diversità di questo popolo. I rifugiati hanno sempre rappresentato una parte significativa del movimento nazionalista.
Come chiarisce la burocrazia Onu, allo status di “profugo palestinese” hanno diritto “i discendenti (nati dopo il 14 maggio 1948) dei padri (di rifugiati palestinesi)… Gli uomini registrati che sposano donne non registrate, hanno titolo per registrare i loro figli”. Viceversa no. Molti dei 700mila profughi del 1948 sono diventati una seconda volta profughi nel 1967, quando Israele conquistò Gaza, Gerusalemme Est e la Cisgiordania.
Ogni profugo ha diritto di essere assistito dall’Unrwa, l’agenzia Onu che se ne occupava prima che cadesse in disgrazia, accusata da Israele: 12 su oltre un migliaio dei suoi dipendenti di Gaza avrebbero preso parte all’assalto di Hamas del 7 ottobre. Il governo italiano è stato tra i più solerti a subire le pressioni israeliane e sostituire l’Unrwa con un improbabile e veelleitario piano di assistenza al popolo palestinese. Nonostante il segretario di Stato Usa, Anthony Blinken avesse affermato che a Gaza nessuno può sostituirsi alle strutture e all’esperienza di Unrwa.
La diaspora palestinese è composta da 6 milioni di emigrati. Non tutti i palestinesi sono profughi. E non tutti i profughi sono nelle liste di Unrwa che a Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria e Giordania si occupa della comunità più povera in una sessantina di campi. Tutti gli altri rimangono “registrati” alla quinta o sesta generazione, per affermare il diritto al ritorno. O per avere, un giorno, le compensazioni storiche previste dalle risoluzioni Onu. E’ per questo che da anni Israele cerca di minare l’esistenza di Unrwa: mantiene vivo il diritto al ritorno dei palestinesi.
Un decennio fa il professor Khalil Shikaki di un importante centro studi di Ramallah, aveva realizzato un sondaggio. Quanti eredi dei profughi palestinesi avrebbero esercitato il diritto al ritorno nei villaggi e nelle città ora israeliane? Quasi nessuno, fu la risposta. Gli oltre tre milioni di giordano-palestinesi stavano bene dove vivevano; come nel Golfo o fuori dal Medio Oriente.
Il posto peggiore dell’esilio del popolo palestinese è il Libano: sono 73 le professioni vietate fuori dai campi profughi. Non possono fare l’ingegnere, l’avvocato, il commerciante. Non possono possedere una casa né un pezzo di terra da coltivare. Non possono studiare né insegnare nelle scuole libanesi; né essere medico o paziente negli ospedali. La loro condizione ha molte similitudini con quella degli ebrei in molti paesi europei nei secoli passati.
E’ naturale che, diversamente dagli altri palestinesi della diaspora, la gran parte degli abitanti dei campi in Libano volessero tornare in Palestina: ma nello Stato che sarebbe nato. Se mai nascerà.