“Ho rimesso nelle mani del Presidente le dimissioni del governo”, è stata la breve comunicazione di Mohammed Shtayyeh, premier dell’Autorità Nazionale Palestinese dal 2019. E’ qualcosa di più del cambio dell’esecutivo di un’entità nazionale mai nata: potrebbe essere il primo passo del futuro stato palestinese.
Il condizionale è più che obbligatorio. Ma certamente è il primo atto del “day after”: delle scelte politiche e diplomatiche che dovranno essere prese quando la guerra di Gaza finirà e dovrà essere data sicurezza a Israele e un orizzonte ai palestinesi. La decisione di dimissionare il primo ministro e l’intero governo dalle scarse realizzazioni, è ciò che gli Stati Uniti e gli europei chiedevano per rinnovare il volto dell’Autorità di Ramallah, in Cisgiordania: l’entità autonoma che nelle intenzione della comunità internazionale dovrebbe prendere il posto di Hamas nella striscia di Gaza.
Ma la guerra di Gaza non è finita e il “day after” è ancora lontano. Anticiparlo è come fare i conti senza Israele. I negoziatori cercano di raggiungere la tregua necessaria per liberare gli ostaggi israeliani in cambio dei prigionieri politici palestinesi nelle carceri d’Israele. Ma Benjamin Netanyahu ha già detto che l’offensiva su Rafah ci sarà; e quando tutto sarà finito – ancora nessuno sa quando e come – Gaza resterà sotto il suo controllo. Sono piani che contraddicono le intenzioni dell’alleato americano e confermano la rotta di collisione fra il premier israeliano e Joe Biden.
Ma non è solo Netanyahu e il suo governo estremista nazional-religioso ad opporsi a uno stato palestinese. E’ la grande maggioranza dell’opinione pubblica israeliana a non volerlo. C’è ancora la guerra, c’è il vivido ricordo del massacro del 7 ottobre compiuto da Hamas: la società civile del paese, anche i moderati e coloro un tempo pacifisti, partecipano alla mobilitazione nazionale.
E’ il grande problema di chi invece sta già lavorando per il futuro. Americani, europei, arabi moderati si muovono fra lo scetticismo e l’ostilità dei due popoli interessati che – posto sia possibile – si ignorano e si detestano ancor più di prima. La maggioranza di israeliani e palestinesi non crede possa esistere un compromesso sulle loro contrastanti idee di pace.
Il problema più immediato è chi sostituirà Shtayyeh e il suo governo di Ramallah. C’e anche la questione di Mahmud Abbas (Abu Mazen), eletto presidente nel 2005 senza che da allora ci siano state altre elezioni per confermarlo. All’età di 88 anni e con una storia di paralisi decisionali, la sua successione sarebbe un passo fondamentale per il rinnovo del potere palestinese. Ma non è il momento per organizzare elezioni: in Palestina né in Israele.
Almeno fino a quando sarà possibile farlo, Fatah con la sua struttura pletorica, la burocrazia, la corruzione, dovrebbe fare un passo indietro. Il suo non è un modello di governo ma è difficile realizzarlo senza libertà. L’occupante non ha mai aiutato l’Autorità palestinese che, diversamente da Hamas, da 30 anni riconosce l’esistenza d’Israele.
Il sostituto ideale di Shtayyeh sarebbe un candidato indipendente, più un tecnico che un politico della vecchia e stanca generazione. Un candidato col profilo di Salam Fayyad che dopo aver lavorato alla Banca Mondiale e al Fondo Monetario, era stato premier dal 2007 al 2013.
Non fu quella una stagione di negoziati di pace né di collaborazione con Israele. Ma nell’attesa di giorni migliori Fayyad decise di creare le strutture e le istituzioni necessarie al futuro stato. Aumentò l’indipendenza dell’Autorità monetaria e nacque l’ipotesi di una valuta palestinese. “Un paese senza la sua valuta non sarà mai indipendente”, diceva Jihad al-Wazir, l’allora governatore dell’Autorità Monetaria.