Il mondo sarebbe un luogo migliore senza Hamas e Yahja Sinwar, il suo capo militare. Senza la fratellanza musulmana palestinese che negli anni ’90 scatenò un’ondata di terrorismo contro gli accordi di Oslo, forse oggi esisterebbe anche uno stato palestinese. Ma il mondo è un luogo complesso, è raro che le cose vadano per il verso giusto.
Benjamin Netanyahu garantisce che la guerra di Gaza continuerà fino alla “vittoria totale” su Hamas, ormai “a portata di mano”. Bisogna solo radere al suolo Rafah a Sud, al confine con l’Egitto, forse l’ultimo nascondiglio di Sinwar. E’ anche dove sono accampati un milione e mezzo di palestinesi fuggiti dal resto della striscia già rasa al suolo dagli israeliani: nati profughi e ora anche sfollati. Se l’offensiva avesse le stesse modalità delle precedenti, definizioni come “disastro umanitario” e “segni di genocidio”, sarebbero inadeguate.
Quattro mesi dopo l’inizio della guerra è legittimo dubitare delle affermazioni del premier israeliano. L’infrastruttura militare di Hamas è indebolita ma non distrutta. Hamas non è solo un’organizzazione terroristica: ragiona con più freddezza dell’Isis e per quanto lo faccia male, governa la striscia.
Senza la speranza che finisca l’occupazione israeliana, la lotta armata gode di consenso popolare a Gaza e Cisgiordania. E’ una scelta perdente ma quando si è da mezzo secolo sotto un’occupazione sempre più brutale; quando anche un bambino che lancia una pietra è trattato come un terrorista, la disperazione prevale sulla speranza.
I negoziatori egiziani e del Qatar continuano a cercare una tregua che permetta lo scambio fra ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi. Ma i due nemici che devono accettarne le condizioni hanno finalità incompatibili. Hamas vuole la fine del conflitto che certificherebbe la sua vittoria: al movimento basta sopravvivere alla guerra per raggiungerla. A meno di un altro massacro di civili palestinesi, Netanyahu non può ottenere la sua “vittoria totale”. Ogni tregua, anche più vantaggiosa di quelle proposte fino ad ora, significherebbe la fine del suo governo. Gli alleati di estrema destra nazional-religiosa non vogliono liberare prigionieri palestinesi, non sono interessati agli ostaggi israeliani, intendono rioccupare Gaza e continuare la colonizzazione della Cisgiordania.
Dunque fino a che c’è la guerra c’è Netanyahu, fino a che c’è Netanyahu c’è la guerra. Il primo ministro ha già ordinato alle forze armate di preparare un “piano combinato per evacuare la popolazione (1.8 milioni di esseri umani, n.d.r.)” e distruggere i quattro battaglioni di Hamas che lui pensa si nascondano a Rafah.
Il consenso popolare verso Netanyahu è il più basso nei 15 anni da che esercita la carica di premier. Ma i sondaggi dicono anche che solo una minoranza di israeliani è favorevole a uno stato palestinese e a grande maggioranza l’opinione pubblica vuole continuare la guerra. Benny Ganz e Gadi Eisenkot, i due ex generali possibili alternative a Netanyahu, litigano con lui ogni giorno ma restano nel gabinetto di guerra: sanno che gli elettori non capirebbero le loro dimissioni quando ancora si combatte.
L’unica forza capace d’imporre a Israele un corso diverso, sono gli Stati Uniti, decisi a criticarne i comportamenti ma riluttanti a trarne le conseguenze. Si dice che l’indecisione dipenda dalla campagna presidenziale già incominciata. Su Gaza c’è un grande interesse in America. Tuttavia dalla fine della Guerra fredda non è la politica estera che elegge un presidente. Oggi sono l’economia, la pressione migratoria, l’aborto, le relazioni razziali, la diffusione delle armi da fuoco.
Storicamente i repubblicani erano anti-russi e filo-israeliani. Oggi in Campidoglio continuano ad opporsi a ogni aiuto militare a ucraini e israeliani. Non per una questione geopolitica ma per un muro ai confini del Texas.
L’amministrazione Biden sarebbe dunque libera di fare pressione su Israele, imporre un orizzonte che preveda uno stato palestinese; costruire con gli arabi moderati un Medio Oriente più stabile. Non ha molto tempo: solo fino al prossimo novembre, nel caso il cui le presidenziali le rivincesse Donald Trump.