Elezioni, la prova più evidente di libertà e democrazia. In Africa dopo la fine dell’era coloniale, nell’Europa dell’Est dopo il crollo sovietico, in Irak e in Afghanistan dopo la “liberazione” americana, in Libia dopo Gheddafi. La corsa alle urne è sempre stato il grido di libertà di un popolo. Spesso tuttavia, il risultato ha minacciato, a volte vanificato quell’aspirazione.
Il 2024 sarà un anno decisivo per comprendere lo stato della democrazia nel mondo. Si voterà in 62 paesi con una popolazione complessiva di quattro miliardi di abitanti, poco meno della metà del genere umano. Stati Uniti, Gran Bretagna, Iran, Taiwan, India, Indonesia, Messico, Corea del Sud, Pakistan. Per le presidenziali, le legislative o le amministrative, voteranno 16 paesi africani, 11 asiatici, 22 europei, 9 americani, 4 in Oceania.
E’ possibile che si svolgano anche consultazioni anticipate, ora non previste. Forse in Israele, dopo la fine della guerra di Gaza e la discutibile guida di Benjamin Netanyahu. Forse ancora in Argentina se il radicale esperimento di Javier Milei provocherà una catastrofe sociale peggiore delle crisi economiche provocate dai suoi predecessori.
In Europa si voterà per il rinnovo del Parlamento dell’Unione: un test decisivo per capire quanto il centro- destra o il centro-sinistra continentali (forse insieme) conterranno i crescenti nazional-populismi di estrema destra. Il risultato determinerà il cammino dell’Unione e influenzerà il destino delle democrazie liberali di diversi paesi europei.
In ogni elezione è la qualità della democrazia ad essere in gioco. Non in casi come le presidenziali di marzo nella Russia di Vladimir Putin, dove non c’è nulla di tutto questo ma, al contrario, qualcosa di tragico. Passano i secoli ma gli strumenti del potere restano sempre gli stessi: guerre imperiali contro i popoli confinanti e gulag nel gelo per i sudditi russi. Lo facevano gli zar, poi Stalin e ora Putin: ripetitivamente, con le stesse modalità repressive su un popolo cloroformizzato da secoli, ormai politicamente abituato alla sua condizione servile.
In un mondo perfetto il voto dovrebbe essere il punto d’arrivo di un lungo processo democratico. Prima si dovrebbero creare una società civile, un sistema educativo, giudiziario e stampa indipendenti. Spesso il risultato finale di una repentina corsa al seggio sono corruzione, autocrazia, scontri etnici e religiosi, la tirannia della maggioranza sulla minoranza.
Negli Stati Uniti non sempre è la maggioranza degli americani che elegge il presidente. Il “voto elettorale” più importante del “voto popolare” consente la vittoria della minoranza (di solito repubblicana) sulla maggioranza: nel 2000 Al Gore e nel 2016 Hillary Clinton conquistarono la maggioranza dei voti su George W. Bush e Donald Trump ma non quella dei collegi stato per stato.
Alla fine le dinamiche di un processo politico richiedono una forma di rappresentatività popolare: una legittimità, una leadership che avviino il processo di costruzione di una comunità civile. Per questo anche le dittature, come quella di Putin, del venezuelano Nicolàs Maduro o del bielorusso Alexandr Lukashenko, hanno sempre bisogno di giustificare il loro potere con un voto, per quanto fasullo.
L’arretramento della democrazia è la realtà di questa fase della politica globale. Dopo la sua grande espansione alla fine della Guerra Fredda, le libertà sono declinate. Freedom House sostiene però che sia iniziata una svolta a favore della democrazia. Per l’annuale Indice sulla democrazia dell’Economist Intelligent Unit, si tratta solo di una stasi di un declino apparentemente inarrestabile.
Gli appuntamenti elettorali del 2024 serviranno per capirlo. Se Maduro accetterà elezioni trasparenti che segnerebbero la fine del suo fallimentare decennio di potere. O se in Tunisia saranno confermate la presidenza di Kais Saied e il declino dell’unica democrazia nata dalle Primavere arabe.
Una prova di maturità del Sudafrica ereditato da Nelson Mandela, sarebbe la sconfitta dell’African National Congress al voto di aprile: se dopo 30 anni di potere del partito della liberazione dall’apartheid, ne vincesse uno senza caratteristiche razziali. Negli anni l’Anc è diventato più simbolo di corruzione che di democrazia. Cyril Ramaphosa, presidente uscente, ha dovuto ammettere lo “state of disaster” nel quale versa il paese. Ma a causa dei contrasti fra le opposizioni, anche loro incapaci di rappresentare un’alternativa multi-razziale, la prova di maturità sarà rinviata di altri cinque anni.
A primavera si vota anche In India. Non ci sono dubbi sulla terza vittoria consecutiva di Narendra Modi e del Bjp, il suo partito nazionalista hindu: il consenso è attorno al 75%. Al voto del 2019 parteciparono 912 milioni di elettori e 677 partiti, il 780% più delle prime consultazioni del 1952. Data la crescita demografica, le prossime avranno più elettori, più candidati e più partiti. La questione tuttavia è se la più grande democrazia del mondo continuerà ad essere la democrazia conosciuta fino ad ora.
A preservarla è stata una Costituzione molto avanzata per una comunità che, quando fu approvata, aveva l’85% di analfabeti. Secondo B.R. Ambedkar, che la scrisse, l’India era “una collezione di minoranze: un insieme di caste, religioni, etnie e lingue”. E’ il riconoscimento di questo mosaico che ha tenuto unito il paese. Il Bjp vuole invece trasformare l’India nel paese della maggioranza hindu. Modi può raggiungere la percentuale elettorale necessaria per farlo, stravolgendo il capolavoro dei padri costituenti.
Ma è martedì 5 novembre che ci sarà l’elezione delle elezioni: le presidenziali americane. Nell’America che conoscevamo, un candidato con 91 capi d’accusa in quattro procedimenti penali sarebbe già stato interdetto dai pubblici uffici. Negli stessi Stati Uniti un presidente di 81 anni non si sarebbe candidato per un secondo mandato alla fine del quale avrebbe 86 anni: l’età di un nonno o di un tiranno, diceva Nelson Mandela. Niente aprirebbe una crisi profonda per la democrazia in America, in Occidente e nel resto del mondo, quanto una vittoria di Donald Trump.
C’è infine un altro pericolo: l’uso improprio dell’Intelligenza Artificiale. Alcuni pessimi esempi sono stati già dati. Come e quanto cambierà i modelli di linguaggio delle elezioni del 2024? Chiedendoselo con una certa preoccupazione, l’Economist pensa tuttavia “di credere che l’Ia non sia sul punto di distruggere 2.500 anni di esperimenti umani con la democrazia”.
Una versione ridotta di questo articolo è stata pubblicata sul Sole 24 Ore del 18/12/2023