Amnesie americane

Quale è il vero Joe Biden e quale la politica estera americana in Medio Oriente? Il presidente che a microfoni accesi riafferma il veto al cessate il fuoco e l’aiuto a Israele fino a che “gli animali” di Hamas non saranno cancellati dalla faccia della terra? O quello che più informalmente sostiene che Israele stia esagerando, che ha il mondo contro e che il premier Bibi Netanyahu deve cambiare governo (possibilmente andandosene anche lui)?

L’impegno americano in Medio Oriente “è il racconto di una grossolana incomprensione, errori spaventosi, morte e distruzione su scala epocale”. E’ la sintesi di un saggio uscito di recente (Steven Simon, “Grand Delusion”, Penguin Press). E’ stato calcolato che un ventennio di “War on terror” sia costata la vita di 900mila afghani e iracheni.

Se guardiamo al bilancio ancora provvisorio della guerra di Gaza, dall’aggressione di Hamas del 7 ottobre all’assalto israeliano, non c’è una gran differenza. Più di 1500 fra civili e militari su una popolazione di 7milioni di ebrei d’Israele; 17/18mila palestinesi, in maggioranza donne e bambini, sui 2,3 milioni della striscia. In poco più di due mesi.

In questo caso le responsabilità americane sono meno dirette che nella “War on terror”. Il Joe Biden sia on che off the record sostiene che il “day-after” di Gaza deve essere un negoziato per uno stato palestinese. Essendo gli Usa l’unica vera potenza in grado d’imporlo da circa un trentennio almeno, è giusto chiedersi perché abbiano dovuto morire quasi 20mila fra palestinesi e israeliani affinché il presidente tornasse sulla questione.

Nei suoi primi tre anni l’amministrazione Biden lo aveva ignorato. Non ha fatto nulla mentre si espandevano le colonie ebraiche in Cisgiordania e nei Territori l’occupazione israeliana si faceva sempre più brutale. Far tornare a Tel Aviv l’ambasciata che Donald Trump aveva spostato a Gerusalemme, sarebbe stato uno spreco di tempo e denaro. Ma Biden avrebbe potuto riaprire il consolato nella città orientale, destinato ai palestinesi. A Nablus road c’è sempre l’edificio, la bandiera a stelle e strisce garrisce ma continua ad essere tutto chiuso. Niente avrebbe spiegato meglio la volontà americana – oggi così proclamata – che un giorno la capitale della Palestina sarà Gerusalemme Est.

C’è dunque una grave responsabilità politica americana nell’orribile assalto di Hamas ai villaggi israeliani e la risposta di questi ultimi, presto diventata vendetta e disastro umanitario. Nel vuoto lasciato dalla diplomazia che nessuno quanto gli americani avrebbe dovuto riempire, ha preso il sopravvento l’unica altra alternativa: la violenza.

Già nel 1991 gli Stati Uniti avevano trovato in Israele un duro oppositore alla loro visione di pace. L’allora premier, Yitzhak Shamir, era anche peggio di Netanyahu. Ma l’allora segretario di Stato James Baker congelò le garanzie sul credito fino a che Israele non avesse aderito al processo di pace. Non ci sono invece iniziative americane di nessun tipo nel lungo e provocatorio anno prima di Gaza, da che è al potere il governo più estremista e razzista della storia d’Israele.

Le comunità ebraiche americane votano in gran parte democratico sui diritti civili: su Israele il sostegno è univoco. Ma non è questa la spiegazione della lunga distrazione sul conflitto palestinese: dalla fine della Guerra Fredda non è la politica estera che fa eleggere un presidente. La dicotomia fra il Biden ufficiale e ufficioso forse dipende dalla consapevolezza che un futuro diplomatico è possibile solo se Hamas esce completamente di scena. Sfortunatamente, il campo di battaglia sta spiegando che l’eventualità è complicata: in questa guerra, ad Hamas basta sopravvivere per dichiarare una vittoria. Israele no, può solo vincere completamente: il che non accade quasi mai contro milizie preparate il cui campo di battaglia è il loro territorio. Lo provano la guerra del Libano contro Hezbollah nel 2006 e i conflitti precedenti con Hamas.

Nell’attesa di un’improbabile vittoria sono anche gli Stati Uniti, non solo Israele, ad avere il resto del mondo contro. Mentre si cerca d’immaginare un dopo, a Gaza la gente muore. Venti organizzazioni israeliane per i diritti umani hanno scritto una lettera aperta a Biden. Un’altra, pubblicata dal New York Times, è stata mandata dalle sei organizzazioni umanitarie più importanti d’America: “E’ necessario oggi un significativo cambio di approccio del governo americano per salvare Gaza da questo abisso”.

 

  • carl |

    Va purtroppo da sè che con qualche commento non è possibile aspirare a risolvere i gravi e grevi problemi sul tappeto mondiale.. Mentre il cosiddetto “gioco democratico”, che include anche regole non scritte, finisce per mostrare i suoi limiti e quella di Churchill rimane soltanto un battuta…
    Probabilmente il problema di fondo è l’enorme carenza di istruzione, cultura, conoscenza, ecc. che si trascina da tempo immemore e facilita la manipolazione, la divisione, l’antagonismo e alla fin fine, la demagogia. Dovendo concludere, accenno ad un paio di interrogativi riguardanti tuttavia due problemi arciconcreti.. Sia a livello di U.E. che mondiale, come è possibile ragionevolmente gestire un insieme di economie sempre più (e inimmaginabilmente) complesse e che gareggiano mirando sia a sopravvivere che a far profitti, senza un minimo di coordinamento che, ovviamente, dovrebbe essere sia pre-programmato che concordato…? E come contenere i flussi migratori, senza aver agito per tempo ad “aiutarli a casa loro”.. Il che, pertanto, è rimasto l’ennesimo slogan “bla, bla, bla…”?

  • habsb |

    @Fabio
    io invece non credo che le tendenze identitarie rappresentino un pericolo o una sfida per i valori liberali.
    La Storia ci mostra che il commercio e l’economia sono sempre stati possibili fra mondi di cultura e identità diverse: Genova e Venezia commerciavano con l’Islam e anzi la civiltà europea è veramente decollata solo quando ha rinunciato all’aggressione militare delle Crociate, accettando gli scambi commerciali con popoli di identità diversa, senza la pretesa di convertirli o di occupare le loro terre.
    Oggi l’Occidente è impegnato nelle moderne crociate e non ha ancora rinunciato a convertire gli altri popoli alla sua religione della democrazia indiretta e wokista, ma li mette invece sotto pressione con le rivoluzioni colorate di Maidan (riuscita) , Belgrado (in corso), e ancora a HongKong, Siria, Iran, Birmania ….
    Mentre Israele continua a rifiutare il diritto di voto a milioni di abitanti, imprigionandone altri milioni in quella sorta di immenso campo di prigionia che è Gaza, e usa in definitiva gli stessi metodi che Pechino ha usato per cancellare l’identità e la civiltà del popolo tibetano e del popolo uiguro.
    Mentre il tentativo del governo di Kiev di cancellare l’identità russa delle popolazioni di Donbass e Crimea ha scatenato la prevedibilie reazione di Mosca.
    Come giustamente dici Fabio, non sono tanto le questioni economiche a provocare le guerre ( a meno che sanzioni eccessive non soffochino e isolino una nazione come fu con il Giappone negli anni 40 ).
    Sono invece le pretese di convertire gli altri popoli alle proprie credenze, alla propria lingua. D’impadronirsi del loro territorio.
    Se il popolo è troppo debole per reagire, allora subisce e rinuncia, come per i Pellerossa americani, o per i Tibetani e forse per i Palestinesi.
    Se il popolo ha la possibilità di reagire efficacemente, magari cercando forti alleati, allora assisitiamo a guerre lunghe e sanguinose, come è stato in Vietnam, in Afganistan, in Siria, nel Donbass etc etc

    Quindi in definitiva rinsavire significa fare come il Papa nel 1300 : dopo la caduta di Acri nel 1291, rinuncio’ definitivamente a finanziare rivolte e spedizioni militari in Terra Santa, rassegnandosi a convivere con la religione islamica, il che permise all’Europa di prosperare grazie al pacifico commercio con i popoli del Medio Oriente.

    Oggi,rinsavire significa rinunciare a imporre con la forza una trasformazione democratica ai popoli russi, arabi, africani, lasciando che decidino essi stessi della loro identità culturale e politica, e invece riprendere il commercio abolendo tutte le controproduttive sanzioni, proprio come ci dice da 3 secoli il liberale Adam Smith che non vedeva proprio nessun inconveniente a commerciare con una Russia zarista ben più totalitaria di oggi

    Quanto a temere come certuni un’invasione dell’Europa da parte di una Russia che in due anni non ha ancora oltrepassato il Dniepr, e che sarebbe sottoposta alla risposta nucleare della NATO, se non è una presa in giro dell’opinione pubblica occidentale, dimmi tu che cosa è d’altro.
    Saluti

  • Fabio |

    @carl. Niente da obiettare al tuo ultimo commento. Ma l’articolo di Sebastiano Maffettone di oggi, 27/12 sul Corriere, “Nel tempo delle guerre «identitarie»” mette in luce una problematica che forse ha a che fare con l’Huntington di anni fa. Scrive: “Semplificando al massimo, sulle questioni economiche e politiche si può trattare. Su quelle identitarie invece no, e la sfida rischia di essere totale.” Se è così (io non lo so se è proprio così, non ho certezze) diventa molto difficile che qualcuno rinsavisca, perché “rinsavire” significherebbe esporsi all’accusa di tradimento, non alla gratitudine per il compromesso raggiunto ed eventualmente per uno scampato pericolo. Hamas ne è un esempio, come lo è anche l’estrema destra israeliana e Netanyahu stesso. Ma il gioco (che è tutt’altro che un gioco) è ben più vasto. Investe il mondo liberale a nome di tendenze sostanzialmente illiberali (o viceversa se preferisci). Basti ripensare a Dugin o a Bannon per dire. Si ripercorre, mi sembra (mutatis mutandis) il percorso degli anni Trenta. Spero di sbagliare ovviamente.

  • carl |

    @Fabio
    Chi deve rinsavire? Dipende ovviamente dai problemi da risolvere. Ad esempio, per riuscire ad almeno contenere l’evolvere del global warming o cambiamento climatico, a rinsavire dovremmo essere tutti, chi più chi meno . Mentre per problemi di natura geo-politica, economici, ecc. dovrebbero farlo in primo luogo e sopratutto coloro che detengono il potere, i decisori.
    crdlmente

  • Fabio |

    Che in una notte come un’altra non è così strano pensare alle questioni che attanagliano il mondo in questi tempi bui. Non sono i primi che vediamo, è chiaro, non siamo più ragazzini che si affacciano sulla realtà. Ma quando vediamo che molti dei punti di crisi storici – Ucraina, Kosovo, Nagorno-Karabakh, Israele-Gaza-Hezbollah-Iran, Yemen – si mettono a scricchiolare tutti insieme, ovviamente percepiamo che qualcosa di grosso si muove, dietro e oltre le singole crisi locali. Una regressione generale è possibile, dice qualcuno (Carl) e ha ragione. È possibile che qualcosa possa sfuggire di mano quando la temperatura del pianeta si surriscalda proprio sulle faglie dove le placche tettoniche della geopolitica si muovo una contro l’altra. Rinsavire, certo. Ma chi?

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