Un giorno senza dimostrazioni. Ma la guerra fra due visioni d’Israele, diverse come se anche i paesi fossero due, non è finita. E’ stato concordato solo un mese di tregua: si ricomincia a fine aprile e i segnali non sono buoni.
Isaac Herzog, Il presidente della Repubblica, invita governo e opposizioni al dialogo per trovare un compromesso sulle riforme del sistema giudiziario. Nelle sue dichiarazioni Bibi Netanyahu, il premier, vuole aprire una discussione con gli avversari. Ma garantisce ai suoi alleati nazionalisti e religiosi che poi andrà tutto come già stabilito.
Yair Lapid, capo del partito d’opposizione più importante, e gli alleati delle altre forze politiche non si fidano di Netanyahu: troppe volte sono stati ingannati dalle sue manovre. Per gli organizzatori delle manifestazioni non cambia nulla: prossima dimostrazione sabato sera al grande incrocio di Kaplan street, nel centro di Tel Aviv. Sarà la fine della tredicesima settimana di mobilitazione. Ne seguiranno una quattordicesima, una quindicesima, avanti fino alla vittoria.
Tuttavia manca qualcuno, un terzo protagonista, in questa grande impresa di salvataggio della democrazia. Un convitato di pietra che osserva la battaglia con notevole scetticismo: i palestinesi cittadini israeliani (il 20% della popolazione dello stato) e coloro che vivono sotto occupazione a Gerusalemme Est e nei territori.
I primi godono di molte prerogative della democrazia messa in pericolo dagli estremisti religiosi. Ma nel 2018 un altro governo Netanyahu, con il voto di molte opposizioni che oggi manifestano, modificò la Legge Fondamentale stabilendo che Israele è lo Stato Nazione del popolo ebraico con “un diritto esclusivo di autodeterminazione nazionale”: di conseguenza le minoranze del paese non sono cittadini con pari diritti.
La condizione dei palestinesi dei territori è ancor più complicata. “Democrazia e occupazione non sono compatibili” dicevano i cartelli che un manifestante e sua moglie sollevavano durante la dimostrazione di lunedì, davanti alla Knesset. Forse ce n’era qualcuno di più, ma non molti. Altri erano stati esibiti a una manifestazione a Tel Aviv, qualche settimana prima: “Liberiamo Israele dai territori palestinesi”, come condizione per salvare la democrazia degli ebrei che è di alto livello ma indiscutibilmente etnica. In qualche modo il governo Netanyahu e i suoi propositi sono la prova che occupare un altro popolo non fa mai bene all’occupante: corrompe i suoi ideali e le sue aspirazioni.
Grazie anche alle dimostrazioni, se si votasse ora la coalizione delle opposizioni conquisterebbe la maggioranza parlamentare, diceva un sondaggio di ieri. Ma se gli organizzatori avessero inserito la questione palestinese fra le parole d’ordine, la grande protesta israeliana avrebbe perso una buona fetta dei suoi partecipanti e probabilmente dei suoi elettori. A Ramallah né a Gaza, oggi esiste un interlocutore palestinese con cui riavviare un processo di pace. Questo giustifica in parte le ragioni politiche dell’assenza di quel negoziato: tuttavia non riduce i limiti etici del grido di democrazia che da tredici settimane lancia la maggioranza degli ebrei israeliani.
Anche nell’Israele democratico prima dell’assalto di Netanyahu e dei suoi alleati nazional-religiosi, c’erano le “detenzioni amministrative” nei territori palestinesi: pochissimi paesi ne fanno uso. All’arrestato e neanche al suo avvocato vengono notificate le ragioni dell’arresto. Ora i detenuti senza processo sono 971. E almeno due dei giudici della Corte Suprema la cui indipendenza la parte migliore d’Israele vuole salvare con tutte le sue forze, vivono nelle colonie dei territori occupati. La Corte ammette le detenzioni amministrative e avalla l’espropriazione delle terre palestinesi, dando giustificazione legale alla quotidiana brutalità dell’occupazione.
Eppure – è la realtà, non un paradosso – solo gli israeliani che stanno difendendo l’autonomia dei giudici e la loro democrazia, possono offrire un orizzonte negoziale ai palestinesi. Non esisteranno nuove occasioni se vinceranno Netanyahu e il suo alleato Bezalel Smotrich. Secondo quest’ultimo “non esiste una cosa chiamata palestinesi perché non c’è una cosa chiamata popolo palestinese”.
Il Sole 24 Ore, 29/3/2023