Dovrebbe occuparsi di molto altro Slow News, dedicato agli affari internazionali, non solo a Israele. C’è l’aggressione senza fine all’Ucraina, la repressione in Iran, la Corea del Nord, la crisi cinese, l’irriducibile trumpismo negli Usa. Insomma, you name it, dicono gli americani: non c’è che da scegliere.
Ma le vicende descritte nel post di due settimane fa, “Israele-Palestina: in cammino verso l’apartheid”, hanno avuto più di un’evoluzione, in un certo senso stupefacente. E forse non è solo per questo che vi torno. Israele non ha rappresentato solo una porzione cospicua della mia carriera professionale. E’ anche parte rilevante della mia esperienza personale.
L’involuzione democratica che sta vivendo mi preoccupa come se Israele fosse in qualche modo anche il mio paese: non è solo per curiosità giornalistica che sabato scorso sono andato alla manifestazione anti-governativa di Tel Aviv che, come ogni populista del mondo, Bibi Netanyahu ha accusato di essere stata finanziata da forze occulte straniere. E le conseguenze sui palestinesi di questa involuzione, mi preoccupano in uguale misura: come se anche la Palestina fosse per me casa. A dispetto del diffuso tifo da stadio sulla questione, credo che israeliani e palestinesi invischiati nel loro secolare confronto, possano essere amati e criticati a seconda dei momenti, con onesta parzialità.
Ma torniamo ai fatti. Nel post precedente eravamo rimasti al voto all’Onu promosso dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. La petizione passata a maggioranza, riguardava la richiesta di chiedere un giudizio legale alla Corte di Giustizia Internazionale dell’Aia: se quella israeliana dei Territori palestinesi fosse ancora un’occupazione o già un’annessione. Una richiesta ineccepibile, soprattutto un modo legale, diplomatico e pacifico di lottare per l’indipendenza palestinese.
La reazione del nuovo esecutivo di estrema destra nazional-religioso israeliano è stata stupefacente. Ha deciso di non versare all’Autorità Palestinese più di 40 milioni di dollari di ritenute fiscali: come stabilisce il protocollo di Parigi che regola gli aspetti economici degli accordi di Oslo, Israele raccoglie le tasse dei palestinesi e poi le consegna all’amministrazione di Ramallah.
In sostanza l’occupante sanziona l’occupato: forse non esistono precedenti. Secondo il premier Mohammed Shtayyeh, la debole economia palestinese rischia l’insolvenza: il 65% del bilancio dell’Autorità dipende dalle tasse che Israele raccoglie e poi rimborsa.
Ma c’è un seguito del seguito. Ancora alle Nazioni Unite, più di 90 paesi hanno firmato una lettera per chiedere a Israele di cancellare la sanzione economica ai palestinesi. Fra questi anche 15 paesi che si erano espressi contro o si erano astenuti sulla precedente richiesta palestinese di definire l’occupazione dei Territori: compresi Italia, Germania e Francia.
Il governo di Bibi Netanyahu si è doppiamente offeso. La pacifica richiesta all’Onu di un voto e alla Corte di un parere, per Gilad Erdan, l’ambasciatore dello stato ebraico al Palazzo di Vetro, è “terrorismo diplomatico palestinese per colpire Israele”. Erdan e il nuovo ministro degli Esteri Eli Cohen hanno poi definito “insignificante” la successiva lettera dei 90 paesi. Il mese scorso Erdan aveva anche gratuitamente insultato alcuni ambasciatori europei all’Onu, tra cui quello italiano.
L’anno scorso Gilad Erdan si era presentato al Consiglio di Sicurezza con un paio di pietre che – sosteneva – giovani palestinesi avevano lanciato contro gli israeliani, denunciando l’insensibilità della comunità internazionale verso “il terrorismo delle pietre”. Qualcuno aveva fatto notare che anche i palestinesi avrebbero avuto il diritto di portare al consiglio di Sicurezza uno dei bulldozer con i quali gli israeliani radono al suolo le case delle famiglie dei palestinesi accusati di terrorismo. Una vendetta disumana, compiuta senza indagare se la famiglia abbia avuto qualche ruolo nell’educare il giovane alla lotta armata.
Eli Cohen è invece un ministro degli Esteri a poteri e tempo limitati. Secondo gli accordi di governo, ricoprirà l’incarico solo per un anno. Se la coalizione nazional-religiosa durerà di più, nei successivi due il ministro lo farà un altro. Poi nel quarto tornerà Cohen. Il vero responsabile della diplomazia d’Israele è Ron Dermer, braccio destro di Netanyahu, falco come lui e ministro degli Affari Strategici. Qualsiasi rappresentante italiano che volesse incontrare Cohen nei prossimi mesi, sappia che non conta niente. Solo gli interlocutori che Israele ritiene importanti saranno ammessi al cospetto di o cercati da Dermer.
Ormai qualsiasi cosa facciano i palestinesi contro l’occupazione, è terrorismo. Un atto diplomatico, una protesta civile, una semplice critica: tutto è ormai terrorismo nella presunzione di delegittimare le ragioni della resistenza palestinese. Quando la lotta è armata non viene mai riconosciuto il contesto politico di quel gesto violento. E’ solo una questione di sicurezza.
“Si vuole negare in diritto d’Israele alla sua difesa!” viene spesso ripetuto anche da molti politici italiani. E’ un’affermazione priva di senso. Nessuno può negare a Israele un diritto così fondamentale. Non lo si può negare all’Italia, al Perù, al Liechtenstein, nemmeno alla Russia. La questione che conta è che uso faccia di quella legittimità ogni paese. Per Putin anche l’aggressione all’Ucraina è indissolubilmente parte della sicurezza nazionale russa. Un’importante percentuale d’israeliani è convinta che uno stato palestinese metterebbe a rischio la difesa d’Israele: negando l’eventualità che solo uno stato palestinese possa invece garantire al paese la sicurezza di cui ha diritto.
E’ invece solo terrorismo: i palestinesi non sono un popolo ma un’organizzazione terroristica. Ed è come mettere sotto il tappeto della storia il diffuso uso del terrore, praticato dalle milizie ebraiche e a volte tollerato dai partiti più moderati che governavano la comunità, prima che nascesse lo stato d’Israele. Su questo è utile leggere “A State at Any Cost”, la biografia di David Ben Gurion scritta da Tom Segev, un importante storico israeliano.
Allego un articolo sulla crisi istituzionale israeliana apparso il 20 gennaio sulle pagine del Sole 24 Ore
Ugo Tramballi
Le diplomazie e le opinioni pubbliche internazionali sono abituate a considerare Israele sulla base del suo conflitto con i palestinesi o con l’Iran. Quello che ora sta accadendo nello stato ebraico è diverso: il nemico non è alle frontiere ma dentro il paese. Più prima che poi, il nuovo governo di estrema destra a forte impronta nazional-religiosa, prenderà decisioni che faranno riesplodere la questione palestinese. Ma ora il pericolo più urgente riguarda la qualità e la sopravvivenza della democrazia israeliana.
Lo scontro interno provocato dai programmi annunciati dal governo e dalle prime manifestazioni di protesta, è arrivato a una svolta decisiva mercoledì: con il si di 10 giudici su 11, la Corte suprema ha negato a un alleato decisivo di Benjamin Netanyahu, il diritto di essere ministro. Aryeh Deri è il leader del partito ortodosso sefardita Shas al quale Netanyahu aveva affidato due dicasteri importanti per i benefici che ne può trarre la sua comunità religiosa: quello della Sanità e degli Interni.
Non è tuttavia per questo che la Corte Suprema lo ha disqualificato. Come spiega la presidente Esther Hayut, Deri “è una persona che è stata condannata tre volte e ha violato il dovere di servire il publico lealmente e legalmente quando ha occupato importanti cariche pubbliche”. L’ultima condanna per evasione fiscale risale a un anno fa: Deri non era finito in prigione solo perché aveva promesso di ritirarsi dalla vita pubblica.
Il destino politico-giudiziario del leader di Shas è una cartina di tornasole per quello di Netanyahu, imputato per corruzione, frode e abuso di potere. Se in questo scontro distruttivo fra esecutivo e giudiziario, Deri resta ministro, anche il premier potrà liberarsi dei suoi guai con la legge.
Ma il conflitto istituzionale non è solo sulla carriera pubblica di due uomini: riguarda il futuro della democrazia israeliana. Da che esiste, il paese si è sempre vantato di essere l’unica società libera del Medio Oriente: è la principale ragione dell’illimitato aiuto economico e militare americano. I cittadini arabi – il 21% della popolazione – non godono di pieni diritti ma la loro condizione democratica è superiore a quella delle società civili dei paesi arabi.
Lo scontro su Deri è il primo importante scoglio. Ma il programma di governo prevede molti altri abusi allo stato di diritto: cambiare le leggi fondamentali con una maggioranza semplice di 61 deputati su 120; la scelta dei giudici su base politica; la discriminazione delle minoranze, dalla comunità LGTB ai palestinesi. Quando era stata annunciata la grande manifestazione a Tel Aviv, il ministro per la Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, leader di un dei partiti più razzisti, aveva ordinato alla polizia di reprimere la protesta. Il giorno seguente uno dei suoi deputati aveva invocato l’arresto dei capi dell’opposizione.
Non è chiaro come finirà il braccio di ferro fra Corte e Governo. E’ attesa la reazione di Netanyahu che fino a ieri sera non aveva preso posizione. “Quando mio fratello è nei guai, sto dalla sua parte”, avrebbe detto, secondo un canale tv. Ma se si metterà davvero dalla parte di Deri, sarà l’inizio della non tanto lenta discesa d’Israele verso la sua “mediorientalizzazione”. Nel migliore de casi finirà come la Turchia di Erdogan.