Israele-Palestina: in cammino verso l’apartheid

Ha avuto scarsa rilevanza mediatica una votazione avvenuta il mese scorso all’Assemblea generale dell’Onu. E’ comprensibile: di qualsiasi conflitto ci si occupi al Palazzo di Vetro, raramente ciò che viene deciso ha la forza di determinare le vicende sul campo.

In quel caso, su richiesta dell’Olp, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina che dal 1974 ha lo status di osservatore (risoluzione n. 3237), l’assemblea votava se chiedere alla Corte di Giustizia Internazionale dell’Aja di produrre un’opinione legale sulle “conseguenze dell’occupazione, la colonizzazione e l’annessione israeliane, comprese le misure atte ad alterare la composizione demografica, il carattere e lo status della città santa di Gerusalemme”. A favore si sono espressi 87 paesi: contrari 26, astenuti 53. Gli europei hanno votato in ordine sparso. L’Italia fra i no, sebbene non posso credere che alla Farnesina qualcuno avesse pensato che la richiesta mettesse in qualche modo in discussione il diritto d’Israele di esistere.

Nè c’era nulla che il voto potesse provocare a breve termine. Alla Corte dell’Aja servono fra uno e due anni per deliberare. E sarà solo un parere che non avrà alcuna esecuzione pratica fino a che non lo prenderà in considerazione – se lo farà – la Corte Criminale Internazionale, sempre all’Aja. Solo la decisione di quest’ultima sarebbe vincolante per i paesi membri dell’Onu.

La comunità internazionale dovrebbe essere lieta che nella loro lotta d’indipendenza i palestinesi usino le armi della diplomazia e delle leggi internazionali e non la violenza della disperazione. Il voto promosso dall’Olp è una specie d’investimento. In un futuro non troppo lontano, è sperabile, potrebbe contribuire a chiarire dal punto di vista politico e alla fine legale che cosa è l’occupazione israeliana dei Territori palestinesi, se ancora si può parlare solo di occupazione.

A giugno di quest’anno saranno 56 anni da che ai palestinesi non è concessa l’indipendenza nazionale né la cittadinanza israeliana. Israele non spende quasi nulla a favore degli occupati soggetti all’autorità militare dell’occupante che permette la colonizzazione ebraica di grandi spazi dei loro territori. Tutto questo è contrario ai valori fondamentali del mondo democratico, oltre che delle leggi. Perfino Vladimir Putin è più trasparente degli israeliani: agli abitanti dell’Ucraina che ha occupato garantisce la piena cittadinanza russa.

Come spiega Alon Pinkas sul quotidiano Haaretz, i palestinesi chiedono solo di “definire l’essenziale caratteristica della presenza israeliana nei territori conquistati nel giugno del 1967. La questione non è se si tratti di un’occupazione ma se sia de facto un’annessione”. La domanda non è di poco conto.

L’anno scorso uno studio di Amnesty International stabiliva che nei confronti dei palestinesi, Israele praticava l’apartheid: un’accusa che non è corretta. La brutalità e l’illegalità dell’occupazione è indiscutibile. Ma dopo il drammatico fallimento del processo di pace di Oslo, gli israeliani evitano una risposta sul futuro: essendo una risposta molto difficile, è come se negassero la stessa esistenza della questione palestinese. La soluzione sarà dei due stati per due popoli, come proponeva appunto Oslo; o quella ancor più improbabile di uno stato bi-nazionale? O è già in corso un’annessione degli uni sugli altri?

Apartheid è quando gli abitanti dello stesso stato sono sottoposti a leggi e diritti diversi. Come in Sudafrica dove era addirittura la grande maggioranza nera ad essere segregata dalla minoranza bianca. In Israele più del 20% della popolazione è palestinese e per molti versi ha meno diritti degli ebrei israeliani. Ma è rappresentata alla Knesset, svolge liberamente attività politica; e i partiti che la rappresentano conseguirebbero migliori risultati se adottassero un maggiore pragmatismo politico.

Gerusalemme Est araba è stata annessa da Israele ma la gran parte dei 600mila abitanti palestinesi rifiuta di richiedere la cittadinanza dello stato ebraico. I pochi che lo fanno si trovano di fronte a un muro burocratico perché il vero obiettivo delle amministrazioni israeliane è ridurre la popolazione palestinese della città. I palestinesi di Gaza non sono tecnicamente più occupati ma restano chiusi nella gabbia della striscia.

Infine restano i quasi 3 milioni di palestinesi della Cisgiordania, a tutti gli effetti sotto un’occupazione dai connotati anomali e sempre più brutali. Ma formalmente è occupazione. Se tuttavia l’opinione richiesta alla Corte internazionale fosse che in tutti questi anni Israele ha trasformato la sua presenza in annessione de facto, allora il concetto di apartheid sarebbe molto più giustificato.

I probabili due anni e più di ponderato lavoro delle corti dell’Aja, dell’Assemblea generale dell’Onu, dell’eventuale successivo dibattito del Consiglio di sicurezza – e anche delle aspettative palestinesi – potrebbero essere accelerati e semplificati dal nuovo governo israeliano di estrema destra.

“Il popolo ebraico non può occupare la terra che gli appartiene” è sempre stata la logica dei partiti nazional-religiosi che considerano la Cisgiordania parte di Israele biblico. Oggi quelle forze sono nell’esecutivo. Anche Bibi Netanyahu lo pensava ma la sua intelligenza politica e le sue relazioni internazionali lo spingevano a restare vago sulla questione.

Questo invece è ciò che ha twittato il giorno in cui è tornato ad essere premier, sostenuto dai voti necessari degli estremisti ultra-ortodossi: “Il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e indiscutibile su tutta la Terra d’Israele”: ovunque dal Mediterraneo al fiume Giordano. I suoi alleati nazional-religiosi hanno anche intenzione di ricostruire colonie nella striscia di Gaza, abbandonata da Ariel Sharon nel 2005. Saranno dunque loro a toglierci ogni scrupolo e ogni dubbio sull’uso delle parole. Che apartheid presto sia anche quaggiù, come un tempo in Sudafrica e Alabama.

Allego due articoli sul nuovo governo israeliano apparsi in questi giorni sulle pagine del Sole 24 Ore.

Ugo Tramballi

“Metà della nazione studierà la Torah, l’altra metà servirà nell’esercito”, sostiene un deputato ultra-religioso haredì, un “timorato di Dio”. In altre parole, i primi pregheranno, gli altri rischieranno la vita per difendere il paese, compresi coloro che avranno solo da studiare i testi sacri.

E’ una sintesi piuttosto grossolana d’Israele: un paese particolarmente complesso per come è nato, si è sviluppato, per la sua collocazione in una regione non facile; l’unico paese democratico del Medio Oriente, ma anche il solo, democratico, che occupa la terra di un altro popolo. Da ieri quella sintesi è comunque al governo: ha una maggioranza parlamentare relativamente solida per le tradizioni politiche israeliane (63 deputati su 120); esprime ministeri importanti; ha già annunciato una serie di leggi destinate a cambiare il profilo di Israele. Se saranno tutte approvate potrebbero trasformarlo in una teocrazia ebraica.

“Non è la fine della democrazia”, ha garantito Bibi Netanyahu nel discorso inaugurale del suo sesto esecutivo in 15 anni di premiership, 12 dei quali ininterrotti. I punti fondamentali del programma che secondo lui renderanno Israele più forte di quanto già non sia, sono tre: nuove grandi infrastrutture, compreso un treno ad alta velocità da Eilat a Sud, alla frontiera libanese a Nord; impedire all’Iran di costruire la bomba atomica; allargare il numero dei paesi arabi che riconoscono Israele – l’ambizione è l’Arabia Saudita – e con loro concludere la pace con i palestinesi: senza però usare mai la definizione “stato palestinese”.

Non sarà facile essere persuasivi se uno dei documenti politici della coalizione dice che “il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e indiscutibile su tutte le aree della Terra d’Israele”. Il governo “promuoverà e svilupperà insediamenti in ogni parte della Terra d’Israele”, compresi i territori palestinesi occupati.

Il nuovo/vecchio premier conosce le preoccupazioni della minoranza laica d’Israele, dell’alleato americano e della comunità ebraica degli Stati Uniti, influente e tradizionalmente liberal sui diritti umani. Come ha scritto il New York Times in uno degli editoriali dedicati agli sviluppi politici a Gerusalemme, questo esecutivo “è una minaccia significativa per il futuro d’Israele: alla sua direzione, la sicurezza e anche all’idea di una patria ebraica”. I tre punti programmatici di Netanyahu sono “neutri”: potrebbe enunciarli anche Yair Lapid, ora capo dell’opposizione. Ma la preoccupazione per una teocrazia nascente resta forte.

La sintesi di Moshe Gafni, il leader del partito askenazita Giudaismo Unito nella Torah, che vuole dividere i circa 7 milioni di cittadini ebrei d’Israele in sacerdoti e guerrieri, ha già alcuni riscontri statistici. Più del 50% degli alunni delle scuole elementari vengono da famiglie ultra-ortodosse o palestinesi: oggi i cittadini arabi sono più del 20% della popolazione israeliana. Secondo uno studio pubblicato dal quotidiano Haaretz, gli israeliani laici pagano il 90% delle tasse del paese, gli haredim il 2.

Esistono due categorie di partiti ultra-ortodossi. I nazional-religiosi di Itamar Ben Gvir di Potere Ebraico e di Bezalel Smotrich, leader del Partito Sionista Religioso; e i religiosi per così dire “etnici”: lo Shas sefardita di Aryeh Deri e gli askenaziti di Torah Unita. L’agenda dei nazionalisti è trasformare Israele a loro immagine e somiglianza: la millenaria Torah come guida legislativa per il XXI secolo nei confronti degli israeliani laici; e militare riguardo ai palestinesi. Quella dei secondi, gli “etnici” è il riconoscimento formale delle loro regole immutate, all’interno del corpo legislativo d’Israele contemporaneo: praticamente uno stato saprofita dentro lo stato. Negli uni e negli altri sono evidenti i segni d’intolleranza e razzismo.

I quattro partiti sono ora nel governo di Bibi Netanyahu, leader del Likud, un tempo rigorosamente laico e di centro-destra. Durante la campagna elettorale e nelle trattative per la formazione di una maggioranza, hanno tutti preteso e nella gran parte dei casi ottenuto l’applicazione dei loro programmi.

Evitando la stampa americana in gran parte ostile, e rivolgendosi al canale al-Arabiya degli Emirati, Bibi Netanyahu aveva cercato di rassicurare: “Sono loro che si sono uniti a me, non io a loro. Terrò le mie mani ferme sul volante”. Non sono in molti ad esserne convinti, in Israele: non fra gli alleati né nell’opposizione. Tuttavia, i veri controllori delle azioni di questo governo profondamente misogino saranno due donne: la procuratrice generale Gali Baharav-Miara e la presidentessa della Corte suprema Esther Hayut. E’ dal rispetto delle leggi che incomincia la resistenza dell’altro Israele.

 

Ugo Tramballi

Aveva deciso di rinviare la visita. Poi Itamar Ben-Gvir, nuovo ministro e leader di Otzma Yehudit, “Potere Ebraico”, ultra-nazionalista e religioso, è salito sulla spianata del tempio di Gerusalemme. Una visita all’alba, prima che aprisse quel luogo santo per i musulmani, e breve. Ma sufficiente per scatenare il caos religioso e politico in una città con troppo Dio e un conflitto senza fine.

Una volta il Mahatma Gandhi disse che la religione era una questione privata fra Dio e l’uomo. Non è questo il posto né il caso di una considerazione tanto illuminata. Dalla seconda Intifada alle guerre di Gaza, Gerusalemme è sempre il punto di partenza di ogni conflitto fra israeliani e palestinesi. Dopo la guerra dei Sei Giorni del 1967, quando Israele conquistò la parte araba di Gerusalemme e la Cisgiordania palestinese controllate dalla Giordania, le parti in conflitto decisero come amministrare i luoghi santi della città. Lo status quo stabilì che la Spianata dove fino al 70 dopo Cristo sorgeva il Tempio degli ebrei, nel 543 i bizantini avevano costruito una chiesa, e i musulmani una moschea un centinaio d’anni più tardi, sarebbe stata controllata da un’organizzazione islamica. Sulla Spianata del Tempio, dove sorge la moschea di al-Aqsa che i musulmani chiamano Haram al Sharif, il NobileTempio, cristiani ed ebrei possono salirvi solo da turisti. Niente preghiere né politica.

Così è stato per molti anni, nel rispetto di tutti. Fino al 28 settembre 2000, quando Ariel Sharon salì sulla Spianata: l’ex generale israeliano era un laico convinto, la sua fu una premeditazione politica contro il negoziato di pace allora in corso. Fu l’inizio della seconda Intifada palestinese.

Sharon era il leader dell’opposizione; Ben-Gvr è un ministro del governo di destra estrema di Benjamin Netanyahu. La sua visita è ancora più grave: è il ministro per la sicurezza nazionale, ha responsabilità sui territori palestinesi e sulle colonie ebraiche. “I tempi sono cambiati”, ha commentato Ben Gvir, la preghiera sulla Spianata deve essere “aperta a tutti”: lasciando capire che lo status quo sta per essere unilateralmente modificato. La polizia israeliana sostiene che la visita è avvenuta in coordinamento con i vertici politici.

Americani e francesi hanno protestato attraverso i loro ambasciatori; Giordania, Egitto, Turchia, Emirati e sauditi via ministeri degli Esteri. I ministri attendono di capire se le provocazioni continueranno. La gran parte dei paesi citati sono in pace con Israele e fanno proficui scambi economici; l’Arabia Saudita è il decisivo paese arabo col quale Netanyahu vuole concludere una pace storica. Ma sarà difficile ottenerla, e complicato mantenere i rapporti già esistenti, se gli estremisti nazional-religiosi israeliani vogliono cambiare lo status quo di Gerusalemme e anche l’ambigua condizione dei Territori occupati, con la costruzione di nuove colonie, annessioni ed espropri.

La garanzia è che un politico navigato e dalla visibilità internazionale come Netanyahu, saprà controllare gli alleati. Fingere che non esista una questione palestinese – come fa Bibi e anche i suoi predecessori più liberal – è immorale ma è una specie di ambiguità costruttiva nell’attesa di un orizzonte negoziale. Tuttavia non c’è giorno che i nazional-religiosi non dichiarino il contrario. Come il nuovo ministro dell’Edilizia Yitzhak Goldknopf di Ebraismo Unito nella Torah, partito ashkenazina ultra-ortodosso, che propone di costruire nuove case nei Territori occupati per risolvere la crisi degli alloggi in Israele.

Come è noto, gli ebrei pregano al Muro del Pianto, sottostante la Spianata. Per agevolare i riti, dopo la guerra del ’67 gli israeliani rasero al suolo un antico quartiere musulmano. Aprire la Spianata agli ebrei, trovando per loro uno spazio, non sarebbe sbagliato. Se Gerusalemme fosse una città di pace, se fra ebrei e arabi ci fosse armonia e non odio, se gli israeliani permettessero la nascita di uno stato palestinese. Se Itamar Ben Gvir non fosse un razzista, non avesse minacciato Yitzhak Rabin prima che venisse assassinato, non fosse stato espulso dall’Esercito per il suo estremismo e per questo finito in galera. Probabilmente Ben-Gvir è l’ultimo a poter parlare di libertà religiosa. Ma il suo, sulla Spianata, è solo l’inizio di una stagione pericolosa.

  • carl |

    Dopo la lettura dei Suoi articoli (ma, a dire il vero anche prima) cadono, per così dire, le braccia. Insomma un cittadino europeo o, diciamo, occidentale che, a parte o oltre le gatte da pelare euopee e/o del proprio paese di appartenenza, si fosse informato ed interessato, ed avesse cioè seguito e tenuto d’occhio più o meno continuativamente il Vicino Oriente (e non soltanto in occasione di questo o quel conflitto, fatto terroristico, intifada, ecc. avvenuto da quelle parti) direbbe a sè stesso:”Beh, nulla o poco, pochissimo di nuovo è mutato in quella soleggiata costa ed area del Levante Mediterraneo..”. E qualcuno si sarebbe potuto anche dire che: “In fondo, nonostante tutto (ossia mal governo, incompetenza, democrazia tutt’altro che compiuta, corruzione, burocrazia, ritardi, espedienti, tempreggiamenti e quant’altro che caratterizzano l’Italia nostra, ecc.) non dovrei lamentarmi di vivere a una certa distanza sia da quella che da altre aree del pianeta…”.
    Questo è probabilmente il pensiero, l’assenza di pensiero o il compromesso mentale adottato, ecc. di non pochi europei e nordamericani che, almeno qualche volta, si guardino planetariamente intorno pur facendo parte di quell’uno o due miliardi di persone circa che, comunque, se la cavano, o possono sperare di cavarsela, meglio dei rimanenti miliardi che sommati fanno 8 (dico otto) e, oltretutto, in un mondo tutt’altro che pacifico, armonicamente evoluto, sviluppato e gestito.. Tra le molte altre considerazioni possibili, ne scelgo una.
    Tempo fa (anni) ricordo di essermi per l’appunto chiesto come mai, oltre ad aver voluto dotarsi della “bomba”, lo Stato ebraico (o chi per esso) avesse anche sviluppato non solo vettori bellici di media portata, ma anche missili aventi una gittata di 6500 km e fors’anche oltre…? Certo, qualcuno potrebbe dire che era per avere sia satelliti orbitali che un posto al sole nella conquista dello spazio.. Ma, a voler chiudere con una battuta:
    “Non potrebbero essere invece rimasti influenzati dalla serie TV “100” ed essere arrivati a prendere in considerazione perfino la costruzione della colonia orbitale del genere di quella che fa da sfondo alla serie tv in questione…?

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