Sono molte le similitudini fra Donald Trump e Benjamin Netanyahu. Una di queste è la capacità di sopravvivere politicamente a problemi giudiziari che in un paese democratico normalmente dovrebbero costringere i leader a un passo indietro. Se non a qualcosa di peggio. L’israeliano è sotto accusa “solo” in tre casi di corruzione. L’americano è coinvolto in una montagna di procedimenti: dai problemi fiscali delle sue aziende, alla connivenza con i russi nella sua elezione del 2016, fino all’istigazione nell’assalto al Campidoglio.
Ma come Netanyahu ha partecipato e vinto alle politiche della settimana scorsa, e probabilmente guiderà l’esecutivo più pericolosamente a destra della storia israeliana, così Trump potrebbe vincere le elezioni di mid-term: conquistando la maggioranza in Senato e forse anche quella alla Camera dei Rappresentanti. Se accadesse, questo aprirebbe la strada a una ricandidatura fra due anni e a un suo probabile ritorno alla Casa Bianca.
Nel voto di medio termine si rinnova interamente la Camera e un terzo del Senato. Di solito è un referendum sul presidente in carica e i suoi primi due anni di governo. Con costanza disarmante, il consenso per il democratico Joe Biden è stabilmente fra i più bassi della storia recente. Ma questa volta mid-term sarà molto più di un sondaggio presidenziale, nel quale lo sconfitto si limita a cambiare uomini e correggere il tiro della sua amministrazione: magari riuscendo dopo due anni a rivincere.
Costantemente, da Barack Obama in poi, l’America si è sempre più divisa in due schieramenti dalla forza numerica sostanzialmente simile, e violentemente opposti. E’ sempre stato così, anche quando i liberal erano i repubblicani e i conservatori i democratici: sebbene spesso non si assistesse al corpo a corpo di oggi, ma a un sano confronto politico fra conservatorismo e progressismo.
E’ come se l’elezione del primo presidente afro-americano nel 2009 avesse riportato alla luce i resti sotterrati delle travi e delle colonne sulle quali era stata costruita l’America: una città perfetta “in cima alla collina”, nella definizione di John Winthrop, abitata dai primi coloni sbarcati nel Nuovo Mondo; ma anche lo schiavismo, il segregazionismo, il suprematismo bianco; la volontà di cambiare e rinnovare di una parte, contro la paura che i mutamenti stravolgano i supposti valori che hanno fatto dell’America ciò che è. Una specie di Montecchi e Capuleti su scala continentale, già costato una guerra civile.
Oramai i repubblicani – almeno la parte presumibilmente maggioritaria che segue Trump – odiano i democratici spesso chiamati “comunisti”, più di quanto dovrebbero detestare un nemico esterno degli Stati Uniti: per esempio Putin, Xi Jinping o Kim Jong-un. Anche in Israele è così: per coloro che hanno votato a favore degli estremisti nazional-religiosi, il nemico è il centro-sinistra israeliano più di quanto non sia Hamas.
Il grande convitato di pietra delle mid-term americane è Vladimir Putin che di questa polarizzazione ha qualche responsabilità. Il presidente russo non si è comprato Donald Trump ma ha colto le potenzialità destabilizzanti che l’immobiliarista di New York avrebbe avuto, entrando in politica. Reclutare un esercito di hacker, aprire centinaia di siti che diffondevano bugie, panico e odio, costa molto meno di un nuovo sistema missilistico o di una brigata corazzata.
I risultati sono stati positivi, dal suo punto di vista: molto più di quelli sui campi di battaglia dell’Ucraina orientale. Ovunque si sia votato in Occidente, partiti e personalità che simpatizzavano con la Russia di Putin, sono entrati nei governi o hanno avuto significativi risultati elettorali.
La Russia non può competere con gli Stati Uniti sul piano tecnologico, militare né delle alleanze: Gli Usa hanno trattati formali o impegni per la difesa con 66 paesi. Russi e cinesi sono virtualmente soli. In Ucraina Putin ha condotto la campagna di missili e droni, poi la guerra del gas, quindi ha puntato sulla minaccia del nucleare, tattico o sporco che sia. L’arma definitiva, e forse l’ultima a disposizione, sulla quale punta il presidente russo, è la debolezza potenziale ma intrinseca, dei sistemi democratici. Questa elezione di mid-term sarà la più decisiva di tutte quelle tenute fino ad ora in Occidente. La storia ha quasi sempre dimostrato che la Russia non è mai forte come sembra ma non è neanche debole come sembra.