Israele al voto: Bibi e altri fantasmi

La scena è piuttosto scontata, come una rappresentazione che ha avuto troppe repliche per sorprendere ancora. In Israele si vota martedì. Il Likud di Bibi Netanyahu, l’ex centro-destra diventato destra-destra, vincerà ma non abbastanza per governare. Yesh Atid, il centro del premier uscente Yair Lapid, andrà bene ma non fino a insidiare Netanyahu. La sinistra che ha fondato la nazione resterà irrilevante; i rissosi partiti della minoranza araba, il 20% della popolazione d’Israele, perderanno l’ennesima occasione per contare.

Il risultato finale della quinta elezione in 44 mesi, rischia di essere un preludio della sesta, al più tardi entro il 2023. E’ comprensibile che lo sforzo dei partiti durante la campagna, sia stato suscitare l’interesse di un elettorato stanco. In questo senso Yair Lapid era più fortunato: la sua tribuna è stata istituzionale, quella più visibile del premier. Ha portato a termine l’ennesima piccola ma questa volta significativa guerra a Gaza: Hamas ne è rimasto fuori; ha firmato un accordo sui confini marittimi con il Libano, ottenendo un riconoscimento implicito da un paese formalmente ancora in guerra con lo stato ebraico; ha scelto il prossimo capo di stato maggiore.

Come sempre bitakon, sicurezza, è la questione principale di ogni campagna elettorale. Lo è anche l’economia: nei sondaggi salari e inflazione erano al primo posto nelle preoccupazioni degli israeliani. Il paese vive un pesante gap nella distribuzione della ricchezza nazionale. Ma la crescita economica è costante e corposa, rispetto al resto d’Occidente: anche se geograficamente in Medio Oriente, Israele si percepisce occidentale e questo è storicamente una parte del suo problema.

Lo shekel è tra le valute più apprezzate del mondo. E l’accordo sui confini marittimi significa altro gas naturale per un paese già fra i principali produttori nel Levante mediterraneo ed ora con un futuro smagliante da esportatore in Europa.

Fuori da Israele ci si stupisce sempre che le ripetute campagne elettorali quasi ignorino la questione palestinese. Standoci dentro si comprende il perché: chi vorrebbe risolverla non sa come fare; gli altri, la maggioranza relativa non solo di destra, credono di averla risolta, ignorandone l’esistenza.

Nei suoi 18 mesi al governo, da ministro degli Esteri e poi da premier, Yair Lapid ha saputo offrire un po’ di aria fresca, dopo 12 anni di populismo, arroganza e opacità del potere di Bibi Netanyahu, imputato in tre casi di corruzione. All’Assemblea Generale dell’Onu, il mese scorso, Lapid era tornato a proporre la soluzione dei due stati, uno ebraico e uno palestinese, affossata dal fallimento degli accordi di Oslo del 1993.

E’ stato un pericoloso atto di coraggio in tempo di elezioni, perché il paese tende sempre più a destra, come in molti altri casi in Occidente; e per la presenza di alcuni ostacoli strutturali a una soluzione: l’assenza, a parte Lapid, di una leadership israeliana che si senta di riaprire il negoziato; la grave crisi di legittimità dell’Autorità palestinese; la profonda divisione fra quest’ultima in Cisgiordania e Hamas a Gaza. Ma, come aveva detto Lapid al Palazzo di Vetro, affrontare la questione ha a che vedere “con il futuro dei nostri figli”.

Chi la questione non la vuole affrontare, ignorandola o usando le maniere forti, è il fronte delle destre guidato dal Likud di Netanyahu. Sulla carta è la coalizione che più si avvicinerà alla maggioranza di 61 deputati su 120 al Parlamento, la Knesset. La vera novità piuttosto spaventosa di questa quinta elezione, è che Sionismo Religioso, un fronte composto da due partiti violenti e razzisti, potrebbe conquistare una quindicina di seggi, diventare la terza forza il Parlamento, andare al governo e ottenere ministeri.

A partire dal suo nome, Sionismo Religioso rappresenta quanto di più pericoloso possa accadere in un paese democratico: il nazionalismo drogato dall’uso improprio della religione. Fra le tante cose, propone di creare milizie armate nei Territori palestinesi e il suo leader si candida a ministro della Difesa. La coalizione molto religiosa attorno a Netanyahu e al Likud un tempo profondamente laico, è piena di sorprese. Oltre a Bibi inquisito, il leader di Shas – sefarditi ultra-ortodissi – non può diventare ministro perché ha scontato una pena per evasione fiscale; quello askenazita di Torah Unita ha sostenuto che studiare i testi religiosi sia “più faticoso che essere mandati al fronte” a combattere. Ed è certo “che studiare matematica non abbia mai aiutato l’economia nazionale”.

  • carl |

    Si impara sempre qualcosa di nuovo.. Infatti prima di oggi non avevo mai sentito parlare di “Sionismo Religioso”, di Shas e men che meno di “Torah Unita”…!
    Mentre invece, come Lei giustamente ricorda, i kibbutsim nonchè altri insiemi, forme e tradizioni originarie (nel senso di risalenti agli anni quaranta sette/otto del secolo scorso e anche prima) non sono sopravvissuti all’urbanizzazione ed all’occidentalizzazione dello Stato ebraico… Il quale di recente si è ritrovato con la disponibilità di giacimenti sottomarini di gas..
    Certo, l’accordo sul confine marino con il Libano è positivo, ma rimane reversibile se la pacificazione e la risoluzione dei problemi dell’area mediorientale fossero rimandate sine die… Per non parlare dell’estrema vulnerabilità dei gasdotti sottomarini, resa evidente dal sabotaggio di NorthStream 1 & 2, nonchè (indirettamente) dall’attacco condotto ieri l’altro a Sebastopol anche mediante droni subacquei.. E controllare e proteggere i gasdotti (e cavi ICT) sottomarini lungo tutta la loro lunghezza non è alla portata nemmeno dei “più big” della geopolitica mondiale..

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