Il compromesso per la ripresa dell’accordo internazionale sul nucleare iraniano, sarà firmato “entro qualche settimana, forse tra meno di un mese”. Se lo dice David Barnea, la fonte è più che credibile: è il capo del Mossad, il servizio segreto estero d’Israele.
La trattativa è fra Washington e Teheran con il corollario importante di Francia, Gran Bretagna, Germania, Russia, Cina più Unione Europea, i “5+1”. In sostanza, si tratta di fermare il programma nucleare militare iraniano in cambio della fine della gran parte delle sanzioni economiche. JCPOA, Joint Comprehensive Plan of Action, è l’acronimo creato dalla burocrazia diplomatica.
Lo stato ebraico non è direttamente coinvolto: almeno in teoria. Ma della vicenda è come il fantasma di Banquo in Macbeth: è sempre stato sulla scena da evanescente ma fondamentale protagonista. Si è opposto con ogni mezzo nel 2015, quando la prima versione dell’accordo entrò in vigore; nel 2018 Bibi Netanyahu, il premier di allora, ebbe un ruolo primario nel convincere Donald Trump a rompere l’intesa; ed ora Israele condanna e preme sugli Stati Uniti perché l’intesa non passi, l’Iran resti sotto sanzioni e continui ad essere visto come il regista dell’instabilità mediorientale.
Questa volta servizi segreti, militari ed esperti della Difesa sono divisi fra chi pensa che l’accordo sia per Israele un Armageddon, l’annuncio dell’apocalisse; e chi è convinto che avere un compromesso sul nucleare sia sempre meglio che non averlo: le alternative sono un Iran con la Bomba o il bombardamento dell’Iran. Il consigliere per la sicurezza nazionale israeliano è andato in America, seguito da Benny Gantz, il ministro della Difesa.Yair Lapid, il premier, ha telefonato a Joe Biden.
La protesta e la condanna sono bipartisan. Qualche tono è acceso ma in generale è decisamente diverso dai tempi in cui il primo ministro era Netanyahu. Anche in questi giorni l’ex premier, leader di un Likud sempre più a destra che al centro (lo stesso percorso dei repubblicani americani), ha attaccato l’accordo con una certa brutalità: “E’ follia! E’ il culmine della stupidità!”.
La protesta e l’uso di qualche aggettivo forte da parte di Lapid, centrista, sono invece più figli della campagna elettorale in corso che di una reale convinzione: come a Washington per le mid-term, il primo novembre anche in Israele si vota per il Parlamento e la questione sicurezza è sempre primaria per gli elettori di questo paese.
“ Apprezzo la loro volontà di ascoltare e lavorare con noi”, dice Lapid dell’amministrazione americana. “E’ e resterà il nostro alleato più stretto e il presidente Biden è uno dei più grandi amici che Israele ha mai conosciuto”. Nel 2015 Netanyahu aveva ingaggiato un duello contro l’allora presidente Barack Obama, sconfinato in un’imbarazzante ingerenza israeliana negli affari americani. Lapid invece è chiaramente determinato a non incrinare l’alleanza con gli Stati Uniti, strategicamente più essenziale di ogni altra cosa per Israele, più del nucleare iraniano.
“Il mondo di oggi, specialmente alla luce della guerra fra Russia e Ucraina, non vuole pensare a un altro conflitto”, dice ancora Barnea, il rassegnato capo del Mossad, giustificando l’imminente accordo. A Gerusalemme non possono ignorare che il JCPOA oggi sia l’unica cosa sulla quale Usa e Russia sono d’accordo. Pochi giorni fa il Mossad ha nominato per la prima volta una donna alla guida del desk Iran, oggi il più importante del servizio segreto israeliano. Sarà lei a scegliere gli agenti da mandare sul campo per verificare quanto gli iraniani rispetteranno il patto sul nucleare.
Anche l’Arabia Saudita, in passato opposta quanto Israele all’accordo con l’Iran, ora sembra adattarsi all’inevitabile. Spinto da Riyad, il primo produttore di petrolio al mondo, l’Opec si sta già preparando al ritorno sul mercato del greggio iraniano, quando cadranno le sanzioni. Da quel momento, entro poco più di un anno l’Iran dovrebbe essere in grado di tornare alla sua massima capacità produttiva di quattro milioni di barili al giorno: ora è di 2,6.
A luglio Joe Biden era andato in Arabia Saudita con lo scopo di ottenere dall’Opec un aumento di circa 648mila barili al giorno, nella speranza di ridurre i prezzi sul mercato mondiale. Con il ritorno del greggio iraniano, quel’incremento non servirà più. Al contrario, nel suo vertice del 5 settembre l’Opec potrebbe decidere nuovi tagli.
Ma perché Israele è così ossessionato dal pericolo iraniano? Perché lo stato ebraico ha sempre avuto bisogno di un nemico che lo aiutasse a definire se stesso, i suoi obiettivi e l’enfasi sulla sua sicurezza: l’egiziano Gamal Nasser, poi il palestinese Yasser Arafat, Saddam Hussein in Irak ed ora la Repubblica Islamica. E perché l’Iran è effettivamente un pericolo.
L’accordo del 2015 era basato su un malinteso: Stati Uniti e i cinque più uno erano convinti che con la messa in sicurezza del nucleare, fosse implicita anche la moderazione delle ambizioni geopolitiche iraniane. Al contrario, trattato l’accordo, gli iraniani hanno continuato con più determinazione ad allargare la loro sfera d’influenza in Medio Oriente: Irak, Siria, Yemen, Libano, i contatti con Hamas e Jihad Islamica palestinesi a Gaza.
Questa è la preoccupazione d’Israele: non tanto la creazione di una Bomba islamica quanto un nemico alle porte nel senso convenzionale del termine. Sul Golan siriano e nel Sud del Libano controllato dal partito sciita Hezbollah, gli iraniani sono alle frontiere d’Israele.