Siete “l’alleato più affidabile” degli Stati Uniti nella Nato, diceva l’altro ieri a Washington Lloyd Austin, il segretario alla Difesa, al collega italiano Lorenzo Guerini, in visita al Pentagono. “Una partnership strategica cruciale” dell’Alleanza per le nostre molte missioni nell’Est d’Europa e per lo scacchiere che più preme all’Italia: il Sud, il Mediterraneo.
Parole confortanti nel giorno in cui a Roma si consumava un dramma politico difficile da spiegare fuori dai nostri confini. Parole anche fin troppo lusinghiere: altri paesi Nato sono decisivi almeno quanto il nostro. Forse Lloyd voleva testimoniare la preoccupazione americana di perdere un partner come Mario Draghi, autorevole perché credibile.
E’ propaganda il tweet di Dmitrij Medvedev, l’ex presidente russo, con l’immagine di Boris Johnson, di Draghi e di una terza figura coperta da un punto di domanda: chi sarà il prossimo? Ma è anche la sintesi di un programma politico: uno alla volta cadranno tutti i nemici della Russia e i loro sistemi democratici. Medvedev poteva anche aggiungere Emmanuel Macron che ha salvato la sua presidenza ma perso la maggioranza parlamentare.
Sono molti, fra i grillini, i sostenitori di questo programma. Dopo avere ammirato la dittatura gerontocratico-coniugale di Daniel Ortega in Nicaragua, ora Alessandro Di Battista è il nostro entusiasta inviato speciale nella Russia di Putin. Di Battista, che nel governo giallo-verde avrebbe potuto essere ministro della Difesa, ne descrive i successi economici rispetto alla crisi europea.
Accusarli di essere una consapevole quinta colonna della dittatura russa, sarebbe come dar loro un’importanza esagerata. Ma è su questo populismo che Vladimir Putin conta per scardinare l’Occidente prima che il costo della sua aggressione all’Ucraina e le sanzioni economiche pieghino lui.
Come nei tempi lontani della Guerra Fredda, quando l’Italia era chiamata “la Bulgaria della Nato” (fra gli alleati del Patto di Varsavia i bulgari erano gli ubbidienti fra gli ubbidienti agli ukaze sovietici), c’è chi continua a credere che alla fine sarà Washington a imporre di nuovo Mario Draghi. Ma i tempi sono cambiati. Non sono più quelli di Clare Boothe Luce, l’ambasciatrice a Roma negli anni Cinquanta, che convocava in via Veneto i segretari di partito e i direttori dei giornali per trasmettere le volontà della Casa Bianca e del dipartimento di Stato. Tra l’altro, come alcuni leader di partito, anche i giornali non hanno più il peso di allora.
George W. Bush non riuscì ad arruolare la Francia nell’invasione all’Iraq del 2003, e solo parzialmente ci riuscì con il governo Berlusconi. “Gli americani vengono da Marte, gli europei da Venere”, scrisse Bob Kagan per descrivere la scarsa volontà dei membri Ue di partecipare alle guerre americane. Qualche anno più tardi Barack Obama e il suo vice Joe Biden, di origini irlandesi, fecero campagna elettorale contro la Brexit ma non furono ascoltati dagli storici alleati dell’America.
Nella sua visione populista e isolazionista, Donald Trump intendeva disfarsi del peso della Nato e dell’alleanza con gli europei. Nonostante l’invasione russa dell’Ucraina, questa tendenza è ancora piuttosto diffusa nell’elettorato americano.
Più del destino del governo Draghi, è molto probabile che in questi giorni a Joe Biden stiano a cuore l’Arabia Saudita e la speranza che il regno aumenti la produzione petrolifera per calmierare il prezzo del barile. Ciò non significa che gli Stati Uniti non esercitino tutte le pressioni possibili perché il presidente del Consiglio uscente non esca affatto.
Ma oggi la forza di dissuasione più forte è l’Europa. E’ lo spread fra Btp e Bund tedeschi a 223; sono i miliardi di euro del Pnrr; è Bruxelles sempre più importante nel sovrapporsi di crisi, dal Covid all’Ucraina. Più degli Stati Uniti è perfino l’alleato preferenziale dell’Italia di Mario Draghi: Emanuel Macron, pur con le sue difficoltà interne. Il mondo cambia e dovrebbero adeguarsi anche i luoghi comuni dei complottisti.
Il Sole 24 Ore, 16/7/22