Non sarà il normale viaggio di un presidente americano in Medio Oriente: tre giorni, due paesi e di nuovo a Washington, ai dossier sull’Ucraina, l’inflazione e la benzina oltre i 5 dollari al gallone. In quei quattro giorni (13-16 luglio) e nei due paesi (Israele e Arabia Saudita) Joe Biden cercherà di raggiungere numerosi obiettivi, incontrerà molti leader e, soprattutto, tenterà di dare alla regione prima produttrice al mondo d’idrocarburi e conflitti, un sistema di cooperazione e sicurezza collettiva.
La visita in Israele sarà “tradizionale”: incontrerà i vertici israeliani e palestinesi, si occuperà della sicurezza dei primi e della condizione di occupati dei secondi. Forse cercherà di ridare vita al dialogo di pace ma senza convinzione: non ci sono appigli negoziali cui ancorarsi.
Mbs, Mohammed bin Salman, principe ereditario ma già dominatore del regno saudita, “è un paria”, diceva Joe Biden due anni fa, durante la campagna elettorale. La Cia aveva le prove che dell’omicidio del giornalista e oppositore Jamal Khashoggi, Mbs era il mandante. Andando a Jeddah, per il presidente sembra dunque una resa.
Ma in ogni paese democratico c’è un interesse nazionale politico-economico e uno morale. Sono quasi sempre in contrasto. Con la guerra in Ucraina è necessario aumentare la produzione di petrolio per abbassarne il costo. Quando Biden lo aveva chiesto, tre mesi fa, sauditi e Opec non avevano risposto. “Non cambio la mia opinione sui diritti umani, ma come presidente il mio lavoro è portare la pace dove posso. E questo è ciò che sto cercando di fare”, si giustifica ora Biden.
Incassato dunque il viaggio presidenziale, in cambio i sauditi produrranno 200mila barili in più al giorno, a partire da luglio: sommati a quelli dell’Opec, saranno 600mila. Intanto Mbs ha aperto un dialogo diplomatico con l’Iran, cessato i combattimenti nello Yemen, liberato molti dissidenti sauditi.
Petrolio a parte, è a Jeddah che Joe Biden conta di costruire un nuovo “Grand Design” americano per la regione, dando un’impronta storica alla visita. Non sarà un incontro a due con i sauditi – che già è un evento, date le tensioni degli ultimi anni – ma un vertice con il Consiglio di Cooperazione del Golfo (Emirati, Oman, Qatar, Bahrain, Kuwait e Arabia Saudita), più Egitto, Giordania e Irak.
Forse Israele non parteciperà fisicamente, sebbene esista l’ipotesi che Biden porti con se Yir Lapid, il premier del governo senza maggioranza. Ma ne sarà comunque un protagonista. L’obiettivo è creare qualcosa di più simile a un’alleanza regionale difensiva, nella quale lo stato ebraico parteciperà con un ruolo attivo: soprattutto grazie alle sue tecnologie militari.
Con gli accordi di Abramo, Israele ha già importanti relazioni con Emirati, Bahrain e Marocco; da tempo ne coltiva di economiche con Oman e Qatar; con Egitto e Giordania è in pace da decenni. Il riconoscimento saudita, leader della regione e del mondo islamico, sembra vicino. Ma il disegno dell’amministrazione Biden è qualcosa di più strutturale e ampio degli accordi di Abramo, promossi due anni fa da Donald Trump.
A prima vista, il progetto sembra un asse sunnita-israeliano contro l’Iran e i suoi alleati regionali. Il fronte che Biden vuole costruire ha effettivamente lo scopo di contenere Teheran: tuttavia non per isolarla ma per spingerla a concludere la trattativa sul suo programma nucleare e ripristinare l’accordo del 2015, ricusato da Trump. Fra i paesi arabi del Golfo, Qatar, Oman e Kuwait hanno sempre avuto buoni rapporti con l’Iran; ora li hanno ricuciti anche i sauditi. Solo Israele continua la sua guerra con la Repubblica Islamica. Ma se si aspettasse di trovare ancora nel Golfo un fronte anti-iraniano, commetterebbe un errore.
In Israele, Biden parteciperà anche al primo vertice virtuale di un nuovo organismo: I2U2. Il complicato acronimo sta per India e Israele (due paesi con la “i”) + United States e United Arab Emirates (due con la “u”). Sviluppo e scambio di tecnologie, lotta a fame e mutamenti climatici: aspetti politici e militari sono impliciti. E’ la versione mediorientale allargata, del Quad nell’Indo-Pacifico (Usa, Giappone, Australia e India), il cui scopo è contenere le ambizioni cinesi. Anche in Medio Oriente l’America vuole ridurre l’influenza di Pechino, per ora economica.
Aumento della produzione petrolifera per stabilizzare i prezzi, inclusione d’Israele, ritorno all’antica alleanza con i sauditi, contenimento di Iran e Cina. Sono le tappe della visita di Biden e i mattoni del nuovo “Grand Design”: una rete di alleanze, scambi economici, cooperazione e sicurezza collettiva. Non per imporre di nuovo una presenza ma per favorire un disimpegno: l’America vuole rivolgere attenzione e risorse all’Indo-Pacifico.
Disimpegno non è ritirata: gli Stati Uniti manterranno le loro basi militari in Arabia Saudita, Bahrain, Qatar; non rinunceranno alla loro influenza. Con atteggiamenti diversi, Barack Obama e Donald Trump avevano entrambi avviato il distacco dal Medio Oriente, dopo l’invasione irachena dell’amministrazione Bush: “la guerra da tremila miliardi di dollari”, l’aveva definita il Nobel per l’Economia Joe Stiglitz.
Il disimpegno che propone Joe Biden è più responsabile e articolato; mira ad evitare nuovi interventi militari e dispendio di risorse economiche. Nella prospettiva americana un’eventuale crisi dovrebbe essere affrontata e risolta dagli attori della regione. Cautela e qualche forma di scetticismo riguardo al “Grand Design”, sono d’obbligo.