Lo scopo era uno e uno soltanto: esautorare Bibi Netanyahu, porre fine a 12 anni ininterrotti di potere, orribili per la democrazia israeliana. Guadagnare il tempo necessario perché la giustizia concludesse il suo percorso e rendesse impossibile un ritorno dell’ex premier inseguito da tre inchieste per corruzione.
C’era un secondo dettaglio, per così dire secondario: bisognava approvare il Bilancio dello Stato che con le sue manovre per sopravvivere politicamente, Netanyahu bloccava. Ma la ragion d’essere restava sempre quella: salvare Israele da Bibi. Il risultato finale è che dopo una resistenza così disperata da assomigliare a quella del generale Custer a Little Big Horn, l’esecutivo di Naftali Bennett ha perso la maggioranza alla Knesset, il Parlamento.
Per la quinta volta in quattro anni il Paese tornerà a votare e non c’è ragione per prevedere che il risultato elettorale sarà diverso dai precedenti. Netanyahu e Sarah, la sua autoritaria e invadente moglie, avranno forse la possibilità di avere di nuovo il potere che adorano.
Nel sistema proporzionale israeliano, il Likud di Netanyahu conquisterà più seggi degli altri (li ha già), ma apparentemente non riuscirà a raggiungere i 60 deputati più uno. C’è tuttavia una possibilità abbastanza seria che ad ottobre, quando si tornerà a votare dopo una lunga serie di festività ebraiche, Netanyahu riesca a mettere insieme una maggioranza con il partito dei coloni (quello che sta abbandonando il suo leader Bennett) i nazional-religiosi e le forze politiche religiose aschenazite e sefardite.
Considerando che il Likud non è più da tempo un partito di centro-destra ma sempre più di destra radicale e anti-palestinese, quello che potrebbe uscire dalle prossime elezioni è l’esecutivo più di destra della storia contemporanea d’Israele. Per raggiungere i numeri necessari potrebbero essere cooptati deputati come Bezelel Smotrich e Itamar Ben- Gvir, estremisti e razzisti. Una volta la polizia israeliana li arrestava a causa dei loro comportamenti. Oggi sono deputati e domani potrebbero anche essere ministri, segno di uno spostamento a destra del paese in corso da anni e sempre più celere.
A parte la sua lodevole ragion d’essere – liberare Israele da Netanyahu, un antesignano di Donald Trump prima che sulla scena mondiale apparisse quello autentico – l’esecutivo uscente di Naftaly Bennett non poteva ignorare le sue contraddizioni. Bennett, premier per la prima parte del mandato, era il leader del partito dei coloni israeliani nei territori palestinesi occupati; Yair Lapid, suo vice e ministro degli Esteri destinato a succedergli, è a capo di un partito centrista, profondamente laico e anti-religioso. Gli altri ministri venivano da partiti di destra, centro e sinistra: compreso ciò che restava del Labour e della sinistra pacifista di Meretz; compreso il primo partito arabo in un governo israeliano: quello della Fratellanza islamica inviso agli altri partiti israelo-palestinesi.
Date le sue profonde diversità, questo governo aveva deciso di congelare ogni negoziato sul futuro dei palestinesi (ma non l’occupazione sempre più brutale), dedicandosi al riavvicinamento d’Israele con i paesi arabi della regione. E’ stato un successo, come anche l’attenzione all’economia. Naftali Bennett sarà ricordato come il primo premier della storia d’Israele a portare la kippah, lo zucchetto rituale degli ebrei ortodossi. Il socialista ortodosso David Ben Gurion si sarà rigirato nella sua tomba al kibbutz di Sde Boker, nel Negev.
Yair Lapid rimane l’ultima speranza del centro e della sinistra laiche. Per un accordo fra gentiluomini con Bennett, ricoprirà la carica di premier fino alle elezioni d’ottobre. A metà luglio sarà lui a riceve Joe Biden in visita ufficiale in Israele. Per il presidente americano sarà una consolazione di breve durata: alla prossima occasione dovrà vedersela di nuovo con Bibi Netanyahu, l’Israeliano che lui e Barack Obama hanno sempre calorosamente detestato.