Seguendo con l’attenzione dovuta i due giorni intensi della visita di Mario Draghi a Washington, ho avuto un moto di tristezza: pensando che a meno di un miracolo, fra un anno non saremo più governati da lui. Per le cose che ha saputo dire sull’Ucraina, il modo in cui l’ha fatto – determinazione riguardo alla guerra e visione di un futuro oltre il conflitto – Draghi merita quella definizione politica che in Italia è giusto sia usata con parsimonia: statista.
Sin dal primo incontro con Joe Biden, poi nella conferenza stampa e infine nel discorso all’Atlantic Council, il Presidente del Consiglio ha saputo usare le parole dell’alleato dall’indiscutibile fedeltà (altra qualità rara nella nostra storia dall’Unità a oggi) riguardo all’impegno euro-americano contro l’aggressione russa all’Ucraina.
Tuttavia già nel primo approccio, appena seduto sulla poltrona nella sala ovale, Draghi ha ribadito al presidente americano che insieme all’impegno militare a favore degli ucraini, l’Europa vuole anche cercare di costruire un orizzonte politico per portare Kyiv e Mosca alla trattativa. Non è la solita retorica pacifista: pace subito, niente armi, fermiamo la guerra. Draghi sa che armare l’Ucraina perché resista e respinga l’aggressione russa, è un modo per arrivare alla pace. O meglio: per spingere i nemici ad avviare una trattativa che porti a un compromesso che arrivi alla cessazione delle ostilità. La pace è un’altra cosa, richiede molto più tempo, anche una generazione. E non sempre viene raggiunta.
E’ la posizione che l’Italia condivide con Francia, Germania e Spagna. Stati Uniti e Gran Bretagna hanno soprattutto obiettivi bellici, gli europei vogliono che la guerra sia finalizzata al raggiungimento di un compromesso. In questi giorni molti commentatori hanno ricordato la definizione che ai tempi dell’invasione irachena del 2003 ebbe molto successo a Washington: Marte e Venere. L’America che si apprestava all’attacco, veniva da Marte; gli europei che non lo condividevano (tranne la Gran Bretagna) arrivavano da Venere.
L’autore dell’articolo su Marte e Venere, pubblicato dall’European Policy Centre di Bruxelles, era Robert Kagan. Kagan si è poi pentito sia della definizione che del suo sostegno all’aggressione americana all’Irak. Ma il paragone fra allora e oggi è sbagliato. Sul neo-imperialismo fuori tempo massimo americano dell’amministrazione Bush ci fu un vero scontro con l’Europa. Oggi no, come ha dimostrato anche Draghi. E’ piuttosto un confronto non sulla necessità di sostenere l’Ucraina (sono tutti d’accordo) ma sulle modalità e gli obiettivi finali del conflitto.
I partiti italiani, anche i più perplessi, hanno colto l’importanza delle parole di Draghi a Washington: sebbene le reazioni sembrino più guardare all’andamento dei sondaggi elettorali che all’interesse nazionale. L’unico a ignorare ciò che il suo successore a palazzo Chigi ha detto agli americani, è stato Antonio Conte: forse in quei giorni era in vacanza a Papua Nuova Guinea.
C’è una sola cosa detta da Draghi a Washington, che non è del tutto esatta, una specie di consapevole mezza bugia: che sarà l’Ucraina a stabilire quale pace ci sarà. E’ ovvio ma fino a un certo punto. Quando anche Putin accetterà una trattativa (il problema ora è lui) Volodymyr Zelensky non potrà ignorare i suggerimenti e le pressioni di chi lo ha aiutato a resistere e in parte anche a sconfiggere i russi.
L’Europa che “conta” e che aspira a un compromesso (Italia, Francia, Germania, Spagna) è lontana dalle frontiere russe; l’altra Europa più a Est, a distanza di cannone dalla Russia, preme perché Putin sia inesorabilmente sconfitto; perché la minaccia russa non sopravviva all’aggressione ucraina.
Gli Stati Uniti per ora la pensano allo stesso modo: la guerra a Putin è uno dei pochi temi bipartisan fra democratici e repubblicani. Poi c’è la Gran Bretagna di Boris Johnson che sogna a tal punto di essere Churchill da diventarne una macchietta: per lui una vittoria totale ucraina significa sconfiggere Putin/Hitler e salvarsi dai party gates in tempo di Covid, che minano la sua sopravvivenza politica.
Anche quando il massacro finirà, dunque, costruire un compromesso fra russi e ucraini sarà complicato quanto una guerra. Dopo aver dimostrato come si deve stare sotto le bombe nemiche, Zelensky dovrà provare di avere anche qualità negoziali. Pretendere la giustizia che l’Ucraina merita ed esercitare il realismo che le verrà richiesto, soprattutto in termini territoriali, sono in apparenza necessità contrastanti.