Dalle armi sempre più potenti consegnate agli ucraini, alle sanzioni sempre più dure ai russi; dal taglio sempre più radicale – dove possibile – delle forniture di gas e petrolio di Mosca, a un modello diverso di rapporti economici europei; da un allargamento della Nato a Finlandia e Svezia, impensabile all’inizio di quest’anno, a una nuova struttura di sicurezza continentale che questo comporterà.
Una cosa sembra sempre più evidente: che Stati Uniti ed Europa si stiano organizzando per vivere senza la Russia. Meglio dire contro la Russia. Ma per riflesso questo significa anche senza: in alternativa, nessuna forma di partnership, come se non ci fosse. Vertici del G7, di Nato, dei leader Ue, dei ministri degli Esteri, della Difesa, dell’Economia, dell’Energia dei paesi dell’Unione; continui bilaterali Usa/resto d’Europa e corsa di tutti a Kijv per incontrare Volodymyr Zelensky. E’ una stagione di summit, oltre che di guerra. Ma in nessuno di questi incontri viene posto il problema di come dialogare con la Russia. A onor del vero, in presenza od online, tutti sono passati per Mosca, scoprendo che parlare con Vladimir Putin è una perdita di tempo fino a che una sconfitta militare non lo renderà più realista.
Questa riorganizzazione generale dell’Occidente è il frutto di una constatazione: comunque finirà l’invasione in Ucraina, Putin resterà a lungo presidente/dittatore di un paese cloroformizzato dal suo nazionalismo da XIX secolo. Ma nel XXI non si può tornare a dialogare con chi è il responsabile di ciò che stiamo vedendo da due mesi. In un certo senso la conseguenza sono i 13,6 miliardi di aiuti militari all’Ucraina, a marzo, più i 33 di aprile stanziati dall’amministrazione Biden.
Tuttavia vivere senza la Russia non è così facile. Come sostiene Charles Kupchan, “l’Occidente non può permettersi di volgere le spalle alla Russia: c’è troppo in gioco”. Oltre alla guerra in Ucraina, continuano ad esistere aree di potenziale collaborazione come il controllo degli arsenali nucleari e convenzionali, i mutamenti climatici, una cauta e guidata correzione della globalizzazione.
Nei confronti della Russia “Washington avrà bisogno di una strategia ibrida di contenimento e coinvolgimento”, conclude Kupchan che insegna relazioni internazionali a Georgetown, l’università che forma i diplomatici americani. Un tempo chi entrava in diplomazia era “pale, male, Yale”, cioè bianco, maschio con una laurea alla protestante Yale. Georgetown è invece la più antica università cattolica d’America, fondata dai gesuiti: cura l’aspetto etico delle relazioni internazionali, non solo il suo crudo realismo.
Anche la diplomazia del nostro tempo richiede l’uso di entrambi gli strumenti. Nel caso della Russia occorre far pagare un prezzo alla sua brutalità, lasciando aperto uno spiraglio al compromesso. La questione non è solo isolare la Russia ma essere anche pronti ad aiutarla quando le sanzioni avessero effetto o Putin uscisse di scena. Approfittare della debolezza russa, come accadde dopo la caduta dell’Urss, sarebbe come ripetere lo stesso errore: agevoleremmo la carriera politica di un altro Putin.
Infine l’Occidente ha anche un fronte interno dal quale guardarsi. L’Ungheria è relativamente importante rispetto a una vittoria di Marie Le Pen in Francia: non è avvenuta ma in un paese fondamentale per l’Europa, i voti che ha raccolto sono un’inquietante ammonimento per il futuro. Così le incertezze tedesche, storicamente comprensibili ma oggi politicamente pericolose.
Infine gli Stati Uniti. L’appoggio bipartisan del Congresso al monumentale aiuto militare all’Ucraina, è un segnale importante. Ma nei quattro sondaggi condotti fra marzo e aprile, il consenso popolare per Joe Biden non ha mai superato il 33%: il punto più basso della sua presidenza.