Il 23 febbraio 2014 Vladimir Putin chiudeva le Olimpiadi di Sochi in un tripudio di bandiere con i cinque cerchi, fuochi d’artificio e inni alla fratellanza universale. In quello stesso momento, davanti allo stesso Mar Nero, le forze speciali russe iniziavano l’invasione della penisola di Crimea.
Almeno fino al 20 di febbraio, quando finiranno le olimpiadi invernali di Pechino, dunque, dovremmo stare tranquilli: niente guerra in Ucraina. La Ekecheiria, la tradizionale tregua olimpica dei giochi antichi, non c’entra. Le Olimpiadi oggi sono business e prestigio nazionale. L’ultima cosa che in questo momento vuole fare Putin è indispettire Xi Jinping che tanto ha investito in denaro e geopolitica per i suoi giochi: un’invasione dell’Ucraina adesso sarebbe un gesto di scortesia politicamente dannoso.
La prima medaglia d’oro di Pechino l’ha già vinta Putin, ospite d’onore all’inaugurazione boicottata dagli Stati Uniti e da molti altri paesi occidentali: gli atleti ci sono ma i leader politici no. Incontro bilaterale in pompa magna, accordi economici, gas russo senza limiti caso mai si chiudessero le pompe per l’Europa, grande solidarietà politica, comune condanna per l’”espansionismo della Nato”.
Ricordando anche le grandi similitudini fra i due sistemi politici, è spontaneo pensare che a Pechino si sia formalizzata la santa alleanza fra Russia e Cina contro gli Stati Uniti, l’Europa e in generale la democrazia. “Relazioni senza precedenti” nella storia dei due paesi, dicono i russi. E’ sicuramente così. Come i cinesi condannano l’espansionismo della Nato in Europa, così i russi l’Aukus, il patto di sicurezza fra Usa, Gran Bretagna e Australia contro le ambizioni cinesi in Asia.
Tuttavia il comunicato finale dei colloqui fra i due leader – prontamente diffuso da Mosca, non da Pechino – va letto fra le righe come ai tempi dell’Unione Sovietica i corrispondenti occidentali dovevano leggere la Pravda: fra le righe, in cerca di notizie. Il nome “Ucraina” non viene mai citato: Kiev è un partner entusiasta della Via della Seta cinese.
“Non esistono aree di cooperazione vietate” fra Russia e Cina, dice ancora il comunicato ufficiale. Ma se Putin alla fine rivelasse le sue intenzioni attaccando l’Ucraina, non è detto che Xi offrirebbe il suo appoggio. La Russia è il primo partner commerciale (147 miliardi di dollari nel 2021) ma la Ue è il secondo ed esporta tecnologia, materia prima non meno importante del gas.
Esiste infine una regola politica legata alla geografia: due paesi con 4mila chilometri di frontiera condivisa hanno tante cose in comune e altrettante per litigare; i russi sono 144 milioni, i cinesi 1.3 miliardi; l’economia dei primi è di qualità discutibile, quella dei secondi compete con gli Usa. Su queste basi le regole di un’alleanza (evidentemente il comunicato non ne fa alcun accenno) o di una stretta collaborazione sono definite dal partner più forte.
Per quanto la crisi ucraina sollevata da Putin serva alla Cina per distrarre le attenzioni americane dall’Asia, qualsiasi sinologo sosterrebbe che oggi l’obiettivo primario di Xi è stabilizzare le relazioni, ora troppo incerte, con gli Stati Uniti. La Russia è una potenza che conta, ma nel grande gioco a tre oggi interpreta il ruolo che fino a vent’anni fa ricopriva la Cina: quello del più debole.
Tutto questo si chiama “balance of power”, del quale Henry Kissinger è stato il grande maestro del XX secolo. Un’arte che i presidenti americani del XXI hanno praticato molto poco. E male quando ci hanno provato.
Alcuni anni fa John Mearsheimer, uno dei più grandi accademici di relazioni internazionali, tenne una indimenticabile lezione pubblica all’Università di Chicago, dove insegna. L’Ucraina, la cui crisi era da poco incominciata, non è una priorità strategica americana. Ma lo è per la Russia, spiegò. Nemico, competitor o partner, il soggetto strategico degli Stati Uniti in questo secolo è la Cina, come nessun’altra potenza lo è stata nei precedenti 200 anni. Ed è importante – concluse Mearsheimer – che nel confronto con Pechino nei decenni a venire, la Russia sia dalla parte degli Stati Uniti. Come 50 anni fa fu il caso della Cina, grazie a una creazione diplomatica di Henry Kissinger e Zhou Enlai, allora premier cinese.
Accademico e diplomatico di raro cinismo, Kissinger era un genio nella gestione dell’equilibrio fra le potenze per contenere le crisi internazionali. In un saggio appena pubblicato (“Master of the Game”), Martin Indyk, ex negoziatore americano fra israeliani e palestinesi, ricorda cosa Kissinger ottenne, fermando la guerra del Kippur del 1973: assicurò la vittoria dell’alleato israeliano su Egitto e Siria, sodali dell’Urss; impedì un’umiliante sconfitta egiziana che avrebbe reso impossibile avviare negoziati di pace con Israele; mostrò agli arabi che solo gli Stati Uniti potevano garantire loro dei risultati al tavolo negoziale; salvò la distensione con Mosca mentre in realtà ne stava minando l’influenza in Medio Oriente.
Ci fossero state allora Olimpiadi al Cairo o a Gerusalemme, Kissinger avrebbe vinto una medaglia d’oro più smagliante di quella di Putin a Pechino.
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