Pubblico sul blog l’articolo dedicato all’11 Settembre, uscito sabato scorso sul Sole24Ore.
Ugo Tramballi
Nove giorni dopo, la determinazione aveva preso il posto dello smarrimento. “Dedicheremo ogni risorsa sotto il nostro comando”, disse il 20 settembre George Bush alla sessione congiunta di Senato e Camera dei rappresentanti. “Ogni mezzo diplomatico, ogni dispositivo dell’intelligence, ogni strumento per l’applicazione delle leggi, ogni influenza finanziaria e ogni necessaria arma di guerra, per la cessazione e la disfatta della rete del terrorismo globale”. Due settimane più tardi, il consenso popolare per l’invasione dell’Afghanistan e la caccia a Osama bin Laden, sarebbe stato universale. In Senato votarono 98 a 0, alla Camera dei rappresentanti 420 a 1. Incominciava la “War on Terror” che avrebbe cambiato l’America.
Osama bin Laden fu scovato e ucciso dieci anni dopo, il 2 maggio 2011, dagli uomini delle operazioni speciali. Era in Pakistan, in una casa di Abbottabad, 120 chilometri a Nord di Islamabad, in un quartiere abitato da alti ufficiali in pensione. Non è certo che i servizi segreti militari pakistani abbiano informato gli americani ma è sicuro che sapessero dove fosse bin Laden. Allora come oggi per gli Stati Uniti l’affidabilità dell’alleato pakistano è sempre stata esitante.
Dal rifugio di Abbottabad gli americani portarono via migliaia e migliaia di files: testi scritti, audio, immagini, video, trascrizioni di colloqui, appunti, lettere ai capi della jihad in Asia e Medio Oriente: le “Epistole Ladenesi”, come le battezzò la Cia.
Nel 2017 la centrale dell’intelligence di Langley ne declassificò 470mila, solo una parte. Da tutto questo materiale, sintetizzato nell’ultimo numero della rivista Foreign Affairs, emerge il capo di un movimento di successo che aveva operato in Cecenia, Iraq, Somalia, Yemen, Kenia, Tanzania; e incominciato a programmare un attacco al cuore degli Stati Uniti dalla fine del 2000, “per rompere la paura per questo falso idolo e distruggere il mito dell’invincibilità americana”. Oltre che religiose, i files trovati rivelavano che le ambizioni di bin Laden erano geopolitiche e almeno fino all’11 settembre puntavano a questo obiettivo globale.
Dopo gli attentati e la reazione degli Stati Uniti, il materiale di Abbottabad dimostra che al-Qaeda si perse nel frazionismo e nei personalismi di molte altre rivoluzioni della storia contemporanea: chi e come colpire, chi era a favore della nascita di un emirato e chi di uno stato islamico. Fino allo scisma dell’Isis promosso dal giordano al-Zarkawi. Anche lo stato islamico è stato di breve durata: capace solo di affermarsi dove le strutture nazionali erano deboli o assenti, come fra Siria e Iraq, senza mai conquistare uno stato invece organizzato. Nel corso degli anni, uno dopo l’altro tutti i capi di al-Qaeda e Isis sono stati trovati ed eliminati. E dalle ambizioni statuali e geopolitiche la jihad è tornata alla sua vocazione originale: il terrorismo.
E’ per questo che il politologo Robert Kagan, prima sostenitore e poi critico della “War on Terror” – ma comunque autorevole – sostiene sul Washington Post che “la guerra al terrore è stato un successo. In vent’anni non c’è stato nessun attentato del genere” dell’11 Settembre. Ma non è questo che può definire vittoria o sconfitta questo primo ventennio dalla tragedia. Per organizzazione, logistica, segretezza, sorpresa e fortuna, il dirottamento di quattro aerei, la distruzione delle torri gemelle e di un’ala del Pentagono, è un’operazione irripetibile. Come Pearl Harbour nel 1941: neanche la potenza navale e aerea dell’impero giapponese avrebbe potuto colpire una seconda volta il territorio americano.
Ma nemmeno Osama bin Laden, preso dalla burocrazia epistolare della sua rivoluzione islamica, poteva pensare di conseguire un simile “catastrofico successo”, come Foreign Affairs chiama questo ventennio. Il Congresso che aveva approvato l’invasione dell’Afghanistan e due anni dopo sostenuto quella dell’Iraq (con il 64% degli americani favorevole a rimuovere Saddam Hussein), nel 2001 votò un’ “autorizzazione all’uso della forza”: per fare la guerra a chiunque stabiliva avesse qualche legame con l’11 Settembre, il presidente degli Stati Uniti non aveva più bisogno del voto del corpo legislativo. La deputata democratica afro-americana della California Barbara Lee fu l’unica a opporsi.
Una presidenza imperiale, i media più liberi e critici del mondo occidentale trasformati in sonnambuli, lo stravolgimento del sistema giuridico democratico, furono reazioni comprensibili allo shock dell’11 settembre. Ma trasformarono la “War on Terror” in una metastasi istituzionale, spiga lo storico Stephen Wertheim.
Come sostiene Robert Kagan non c’è stato un secondo 11 Settembre. Ma anche dispiegando una forza militare senza precedenti, un apparato di sicurezza interna ai limiti di ciò che consente una democrazia, risorse economiche illimitate (in un libro del 2008 il Nobel Joseph Stiglitz chiama l’Iraq “La guerra da tremila miliardi di dollari”), l’America non si è affrancata dall’incubo del terrorismo islamico. Oltre le migliaia di militari morti in combattimento, dopo l’11 Settembre 107 americani ne sono stati vittime dentro i confini nazionali: alla maratona di Boston, nei locali pubblici, nelle caserme, nell’iconica Times Square di New York.
Nei giorni del disordinato ritiro dall’Afghanistan il NewYork Times aveva rivelato che all’inizio della guerra il leader Afghano Hamid Karzai aveva trattato la resa dei talebani. Ma l’offerta fu respinta dal segretario alla Difesa Donald Rumsfeld e il suo vice Paul Wolfowitz dell’amministrazione Bush, i teorici della versione neo-imperialista della “War on Terror”, contribuendo a trasformare l’Afghanistan in un conflitto senza fine.
In un’intervista al Sole 24 Ore, Wolfowitz sosteneva che come tutti i grandi imperi della storia, anche quello americano avrebbe perso la sua forza. Dunque bisognava approfittare, imponendo la democrazia al mondo. L’ex segretaria di Stato democratica Madeleine Albright avrebbe commentato che “imporre la democrazia con la forza delle armi è un ossimoro”.
Oggi che il ritiro afghano ha definitivamente posto fine alla “War on Terror”, l’America analizza i suoi errori e si chiede come sia stato possibile essere la più grande potenza al mondo e non vincere la guerra. “Nessuno nega che l’America sia il paese più potente del mondo”, riflette Emma Ashford dello Scowcroft Center for Strategy and Security. “Si tratti dell’Afghanistan, della Libia o delle sanzioni alla Russia e al Venezuela non abbiamo raggiunto i risultati politici che vogliamo. Penso sia perché abbiamo esagerato: presumiamo che essendo molto potenti, possiamo realizzare cose che sono irrealizzabili”.
“America is back” era lo slogan elettorale internazionalista di Joe Biden che riproponeva il paese alla guida del mondo democratico nel XXI secolo. E’ l’alternativa ai quattro anni di MAGA, il “Make America Great Again” del nazionalista Donald Trump. L’ultimo ventennio e soprattutto la triste fine in Afghanistan, “sembrano offuscare fra gli alleati l’idea stessa di America is back”, ammette John Allen, ex comandante Nato a Kabul, in un’intervista all’Ispi, l’Itituto per gli Studi di politica internazionale di Milano. “Ma voglio chiedere a tutti di darci un po’ di tempo”.