Pubblico su Slow News il commento uscito sabato sulle pagine del Sole 24 Ore.
All’inizio del suo primo mandato presidenziale, nel 2009, Jacob Zuma ammise pubblicamente di aver fatto l’amore con una giovane malata di Aids. Quando gli fu chiesto se avesse preso delle precauzioni, il presidente rispose: “Si, poi ho fatto una doccia”. Pochi altri paesi al mondo erano stati colpiti dall’Aids: il Sudafrica aveva quasi perso un’intera generazione. La dichiarazione segnalava il disinteresse per le regole e il benessere della nazione dell’uomo che l’avrebbe governata. I sudafricani non dovettero aspettare molto per averne la certezza.
“State capture”, l’appropriazione di un’intera struttura statale, sono chiamati i nove anni del suo potere: il decimo gli fu tolto nel 2018 con un voto del Parlamento, nella speranza di evitare che i danni provocati diventassero irreparabili. Tre anni dopo il suo licenziamento, il paese non ha ancora la certezza di essersi affrancato e cauterizzato da quel sistema profondamente radicato. Le accuse con centinaia di testimoni e rei confessi riguardano corruzione, violenza sessuale, abuso di potere, promozione di sodali nelle cariche dello stato: dal sistema fiscale al giudiziario, dalla polizia ai ministeri economici fondamentali, alle imprese di stato.
Come Al Capone, ricorda la stampa sudafricana, Zuma è finito in galera a 79 anni per un crimine apparentemente minore: essersi rifiutato di ubbidire a un ordine di comparizione in uno dei tanti processi per corruzione, emesso dalla Corte costituzionale. “Pochi giudici illegali”, aveva reagito Zuma dal KwaZulu Natal, la sua base etnica di consenso, agitando lo scudo da battaglia degli antenati e cercando di trasformare accuse provate in complotto politico e scontro tribale. Non fosse stato per Misuzulu kaZwelithini, riconosciuto dalla Costituzione sudafricana come re degli zulu, che ha ordinato ai suoi reggimenti tradizionali di stare lontani dalle manifestazioni pro-Zuma, il bilancio degli scontri di questi giorni sarebbe stato molto più grave.
“Nessun cittadino beneficia dell’esclusione o dell’esenzione dalla sovranità delle leggi della repubblica. E il Signor Zuma non è un’eccezione”, aveva stabilito Sisi Khampepe, la chief justice della Corte costituzionale. Avendo molto chiare le difficoltà che avrebbe affrontato il nuovo Sudafrica democratico e multirazziale, nel 1995 Nelson Mandela aveva voluto una Costituzione che non preservasse il giovane paese solo dagli “assalti diretti” ma anche dalle “corrosioni insidiose” del sistema. Esattamente quelle praticate da Zuma.
La Costituzione non consente più di due mandati presidenziali consecutivi. Dopo 27 anni nelle carceri dell’apartheid, Nelson Mandela decise di completarne uno solo perché “a 80 anni un uomo deve dedicarsi ai nipoti”, non agli affari di stato. Fu una dichiarazione rivoluzionaria in un continente dove i leader lasciano il potere per morte naturale o golpe. Sembrava impossibile che dopo Madiba Mandela (Madiba è un titolo onorifico dato agli anziani della tribù Xhosa alla quale apparteneva, usato poi da tutti i sudafricani e dal mondo intero) il paese potesse essere governato da Jacob Zuma. In mezzo ci fu anche Thabo Mbeki, moralmente distante da Zuma e in qualche modo anche dall’idealismo di Madiba. Adottando politiche monetarie e fiscali coraggiose, Mbeki cercò di ridurre la distanza fra la maggioranza nera che deteneva il potere politico ma non quello economico e la minoranza bianca che aveva perso il primo ma continuava a controllare il secondo. Non ci riuscì ma con lui la crescita economica sudafricana fu cospicua. Zuma non si è limitato a corrompere lo stato, è anche il responsabile di una pesante decrescita, col più alto livello di disoccupazione della storia sudafricana.
Ma la sua colpa più grave, più di corruzione e stagnazione, è aver trasformato l’African National Congress, il più antico movimento di liberazione del continente, in partito-stato. A causa sua i dirigenti più alti, i livelli intermedi, gli amministratori locali si erano convinti che l’Anc, al governo per voto democratico, e lo stato fossero la stessa cosa. L’inconsistenza delle opposizioni, rissose e divise, hanno aiutato l’involuzione dell’Anc che da 26 anni vince ogni elezione nazionale. Nessuno come Zuma ha minato l’unicità democratica africana voluta da Mandela, in un continente nel quale i movimenti di liberazione dal colonialismo si facevano dittatorialmente stato.
Il compito di rifondare l’Anc spetta a Cyril Ramaphosa, delfino di Madiba e nuovo presidente. Nelle immagini della liberazione di Mandela dal carcere, nel 1990, il giovane che gli reggeva il microfono era Ramaphosa. E fu poi Ramaphosa, insieme a Roelf Meyer del Partito nazionale dei boeri, a scrivere la Costituzione la cui corte oggi sfida Zuma. Fra due giorni sarà festa nazionale: è il compleanno di Mandela. L’arresto del corruttore e la fine dello “state capture”, saranno un magnifico regalo a Madiba e al suo sogno di un Sudafrica democratico.