Verso la fine del XVIII secolo i padri fondatori degli Stati Uniti sorvolarono sulla dicotomia fra il proclamato diritto universale al “perseguimento della felicità” e l’assenza di ogni diritto per gli schiavi. Al primo censimento del 1798 i neri erano già quasi 700mila, su una popolazione bianca di tre milioni. Creando pesi e contrappesi, Jefferson, Hamilton, Washington, Adams, Madison, Franklin, e gli altri s’impegnarono invece perché nella democrazia americana non nascessero forme autoritarie della maggioranza eletta. Due secoli e mezzo più tardi il problema dell’America di Trump è l’opposto: come guardarsi dalla dittatura della minoranza.
Nelle ultime sette elezioni presidenziali, i democratici hanno vinto quattro volte, conquistando sempre il voto popolare. Nelle tre in cui hanno prevalso i repubblicani, è accaduto una sola volta: Bush contro Kerry, 2004. Quattro anni fa Hillary Clinton aveva preso quasi tre milioni di voti più di Donald Trump. Come è noto conta il “voto elettorale” dei grandi elettori che esprime ogni stato. Ma quello della maggioranza del popolo americano resta un voto morale ed è un indicatore delle tendenze socio-demografiche del paese.
Per spiegare quali siano queste tendenze il mensile The Atlantic scrive: “Come il Sud prima della guerra civile, il Partito Repubblicano è sostenuto da quella parte della popolazione in via d’indebolimento economico e demografico”. Bianchi, basso livello di educazione scolastica, non residenti nelle metropoli.
Per reagire alla graduale perdita di consenso, i repubblicani si servono di molte armi per affermare il loro potere anche quando sono in minoranza. La più famosa è il gerrymandering: modificare la geografia dei distretti elettorali per garantire sul terreno una maggioranza di elettori repubblicani. Nel 2018 nel Wisconsin i democratici avevano complessivamente preso più voti ma i repubblicani avevano così radicalmente cambiato il profilo dei distretti che nel parlamento dello stato conquistarono una maggioranza di due terzi. Un altro strumento dei governatori repubblicani è negare il diritto di voto alle minoranze che tendono a votare democratico. O impedire il voto per posta: secondo i sondaggi gli elettori di Biden preferiscono l’absentee ballot più dei sostenitori di Trump.
In tutte elezioni repubblicani e democratici cercano di vincere, spesso superando la linea della legalità. Gerrymander è un sostantivo politico composto dal nome del governatore del Massachussetts Ebridge Gerry che nel 1812 per primo modificò i collegi elettorali, e “salamander”, salamandra. Gerry apparteneva al Democratic-Repubblican Party, opposto al Federalist. Mai come in queste presidenziali, tuttavia, il partito repubblicano sta incrinando l’essenza della democrazia americana.
Forse ha ragione Mike Lee, senatore repubblicano dello Utah: “Non siamo una democrazia. La parola non appare in nessuna parte della nostra Costituzione forse perché la nostra forma di governo non è una democrazia. E’ una repubblica costituzionale”. Però anche una repubblica solo costituzionale faticherebbe ad ammettere che il presidente in carica rifiuti di condannare le milizie dei razzisti bianchi e di garantire un pacifico trasferimento dei poteri in caso di sconfitta. Anche il suo vice Mike Pence non l’ha mai fatto.
Che Trump vinca o perda, e nel secondo caso lo riconosca, a questo punto della campagna al partito repubblicano interessa relativamente. Hanno in mano un’arma molto potente per garantire la dittatura della minoranza anche se perderanno la Casa Bianca e perfino il Senato: la Corte Suprema e l’intero sistema giudiziario. Durante il suo mandato Trump ha nominato 217 giudici: record assoluto nella storia presidenziale. Solo a settembre i nuovi giudici distrettuali sono stati una quindicina.
Infine la Corte Suprema nella quale Trump ha nominato tre nuovi giudici: Obama due, in due mandati. E’ difficile pensare che il mese scorso Mitch McConnell, leader della maggioranza repubblicana in Senato, non abbia in cuor suo gioito alla notizia della morte di Ruth Bader Ginsburg, giudice liberal della Corte. Ora il partito ha l’opportunità di avere una maggioranza di sei giudici conservatori sui nove del fondamentale organo di controllo giuridico-costituzionale.
Anche se i democratici vincessero la presidenza, la Camera dei rappresentanti e il Senato, i repubblicani possono fermare tutte le loro leggi attraverso la Corte Suprema: l’aborto, la protezione dell’ambiente, il sostegno a chi ha perso il lavoro a causa della pandemia. Anche l’Affordable Care Act che garantisce una protezione sanitaria a milioni di persone. Gli americani avranno votato democratico ma la direzione del paese continueranno a determinarla i repubblicani. Salvare Trump o fermare le leggi fatte dai democratici, progressiste o moderate che siano, sono strumenti di un obiettivo repubblicano più vasto: resistere alla demografia e alle sue conseguenze elettorali.
I democratici avevano tentato di sostenere che a meno di un mese dalle elezioni dovrebbe spettare al futuro presidente nominare il sostituto di Ruth Ginsburg, e al nuovo Senato ratificarla. Trump ha invece già scelto Amy Coney Barrett, sostenuta con entusiasmo dai senatori repubblicani.
Quattro anni fa, dopo la morte del conservatore Antonin Scalia, fu impedito a Barack Obama di riempire il vuoto con un candidato liberal. Era marzo 2016, nove mesi prima delle elezioni. I repubblicani insorsero: non è opportuno farlo in anno elettorale! Si distinse l’autorevole senatore del South Carolina Lindsey Graham, un tempo duro oppositore di Trump, poi suo servile sostenitore. “Voglio che usiate le mie parole contro di me”, disse allora Graham in una conferenza stampa, con la gravitas di un Catone. “Se c’è un presidente repubblicano e si crea un vuoto nell’ultimo anno del suo primo mandato, potrete dire che Lindsey Graham aveva detto: lasciate che il prossimo presidente, chiunque possa essere, decida la nomina”.
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