Notizie più importanti richiedono l’attenzione internazionale. Una di queste è la richiesta d’impeachment contro Donald Trump che anche i democratici giustamente più riluttanti hanno deciso di sostenere: giustamente riluttanti perché negli unici due precedenti (Andrew Johnson 1868, Bill Clinton 1998) l’incriminazione ha portato politicamente fortuna a chi l’ha subita.
Ma se verrà dimostrato, ciò che Trump avrebbe commesso è imperdonabile: avere preteso dal presidente ucraino l’apertura di un’inchiesta per frode contro il figlio del candidato democratico Joe Biden, bloccando gli aiuti militari a Kiev già stabiliti dal Congresso. Riuscendo così a colpire l’avversario presidenziale americano, facendo contemporaneamente un fare un favore al principale promotore della vittoria di Trump nel 2016: Vladimir Putin.
Tuttavia questo blog è dedicato al coraggio delle poche migliaia di egiziani che la settimana scorsa sono scesi in strada in diverse città del paese, per protestare contro la corruzione e la repressione del regime di Abdel Fattah al-Sisi. Al Cairo, piazza Tahrir è diventata un fortilizio dominato da una gigantesca bandiera egiziana, percorso dal traffico incredibilmente più ordinato della città e presidiato dai militari. Eppure anche lì alcune centinaia di giovani – studenti e giornalisti, dicono le scarne cronache – sono riusciti a organizzare una protesta, prima che le cosi dette forze dell’ordine arrivassero a fermare tutto.
Solo al Cairo si parla di 350 arresti, 1472 contando anche il resto del pase. In Egitto quando si dice fermo o arresto, s’intende molto spesso sparizione, tortura, detenzione illimitata, condanna a vita o a morte per terrorismo. Chiunque manifesti contro il dittatore e i suoi generali violenti e corrotti, è automaticamente un terrorista. Per chiarirci, quello applicato con gli oppositori è il Metodo Regeni che scomparve, fu torturato per una settimana, ammazzato e abbandonato sul ciglio d una strada. Giulio non era un dissidente ed era straniero: immaginatevi cosa il regime fa ai suoi cittadini.
Per trovare il coraggio di tornare a manifestare ci devono essere motivazioni forti. Non credo che l’Egitto voglia tornare ai convulsi giorni di piazza Tahrir. L’ambiziosa, velleitaria e pericolosa incapacità dei Fratelli musulmani di governare; l’instabilità, la violenza, l’improvvisa mancanza di benzina e di altri beni essenziali, organizzate dagli stessi militari che poi avrebbero riportato l’ordine con un golpe sanguinoso, sono ancora chiari nella memoria della gente. Però, come diceva lo scrittore Ala al-Aswani, gli egiziani sono come il cammello: sopportano tutto ma quando si arrabbiano, mordono.
Colpisce che nei giorni passati il ministero degli Esteri egiziano abbia annunciato un accordo di collaborazione con un’università inglese. In un primo tempo era stata diffusa la notizia che l’accademia interessata fosse addirittura l’LSE, la London School of Economics and Political Science. Ho sentito una fitta al cuore, anche perché è l’Università dove ha studiato uno dei miei figli che ha la barba come l’aveva Giulio, quando parla gesticola come lui e ha la sua stessa insana passione per il Medio Oriente.
La notizia è stata subito smentita dagli interessati: “LSE is not opening a branch in Egypt”. Punto. Ma un altro ateneo ha firmato un accordo con il governo egiziano: è la meno autorevole University of London. La fitta al cuore mi è venuta ugualmente. Per cominciare perché Giulio era un ricercatore di Cabridge: un’incauta docente gli aveva affidato una ricerca politicamente sensibile. L’assassino di Giulio non è lei ma il regime di al-Sisi. Tuttavia mi sarei aspettato che l’Accademia inglese nel suo insieme mantenesse in qualche modo la memoria di Giulio.
Non sono mai stato un sostenitore del boicottaggio contro l’Egitto. L’Eni e le tante aziende italiane che operano in quel paese danno lavoro a molti egiziani e molti italiani, contribuendo al nostro Pil. Se l’Eni rinunciasse al gigantesco campo petrolifero di Zhor – che ha scoperto – tutte le imprese energetiche del mondo sarebbero felici di prenderne il posto: anche quelle degli amici inglesi.
Ma l’Università è un’altra cosa. In un paese dove è vietato pensare se non come vuole il regime, a cosa serve insegnare il libero arbitrio che è alla base di ogni materia? Credo che nemmeno l’University of London desideri produrre giovani carcerati. L’accordo fatto con questo ateneo rientra in un progetto egiziano più ambizioso. Nella Nuova Capitale Aministrativa che il faraone sta costruendo vicino al Cairo, la European University egiziana vuole aprire facoltà francesi, ungheresi, svedesi perché l’Egitto “ha la potenzialità per attrarre i grandi centri del sapere”. Nel progetto ne è prevista anche una italiana. Chissà se la chiameranno Università Giulio Regeni.