Jamal Khashoggi, il giornalista e dissidente fatto sparire, era in esilio volontario negli Sati Uniti, dove era andato nella convinzione di essere protetto dal paese che dovrebbe essere faro delle libertà. Per il Washington Post Jamal scriveva analisi sul suo paese e l’intero Medio Oriente. Erano ovviamente critiche ma molto competenti ed equilibrate: un punto di riferimento per chiunque volesse capire quella regione.
La presa di distanze di Trump ricorda quando Matteo Salvini disse che il caso di Giulio Regeni in Egitto non riguardava l’Italia con la sua dignità e i suoi valori, ma la famiglia del giovane ucciso al Cairo. In altre prole, i nostri interessi economici ed energetici in quel paese valevano bene l’omicidio impunito di un giovane compatriota. Come Trump nel caso di Khashoggi: giornali e politici (anche repubblicani) gridavano allo scandalo per il comportamento di un paese alleato come l’Arabia Saudita, armato e protetto degli americani. Ma a Fox il presidente ricordava che il suo compito era preservare contratti da 100 miliardi di dollari in armi e tecnologie militari.
Per quanto disumana, l’obiezione non è priva di senso. Non credo che in nome di Khashoggi, Putin o i francesi rinuncerebbero a sostituirsi agli americani nel fare affari con i sauditi. Come nel caso di Eni e delle centinaia di aziende italiane che operano in Egitto, quando Giulio fu assassinato: non appena congelammo in segno di protesta i nostri rapporti economici, non solo russi e cinesi ma anche i cari fratelli europei tentarono di approfittarne, alla faccia dei comuni valori.
Eppure. Fra rompere accordi miliardari che producono lavoro e Pil, e permettere che un dittatore (egiziano o saudita) agisca come un Dart Fener, ci sono molti passaggi intermedi che possano garantire una modica quantità di giustizia senza minare la stabilità di quei paesi. Invece quello che è accaduto al Cairo e sta per accadere a Riyadh è il trionfo dell’impunità.
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