Riemerso dall’umiliazione di un licenziamento via twitter, Rex Tillerson, segretario di Stato fino a un mese fa, è apparso in pubblico. E subito, nel suo discorso al Virginia Military Institute ha attaccato Donald Trump: “Se i nostri leader cercano di occultare la verità o se noi ci abituiamo ad accettare realtà alternative, allora noi cittadini americani siamo sulla strada di perdere la nostra libertà”.
Le bugie che un presidente degli Stati Uniti può raccontare senza vergogna, non mettono in crisi solo il sistema democratico americano: minacciano anche il nostro. Il web, che pubblicandole le rende legittime anche più della realtà provata, è la fonte primaria di erosione del sistema nel quale nuota Trump: mille falsità fanno una verità incontrovertibile. Per gli utilizzatori di internet “la verità diventa relativa, l’informazione soverchia la saggezza”, scrive Henry Kissinger sul magazine The Atlantic, in un articolo intitolato “Come finisce l’illuminismo”. https://www.theatlantic.com/magazine/archive/2018/06/henry-kissinger-ai-could-mean-the-end-of-human-history/559124/
Pensavamo sarebbe stato il moltiplicatore delle nostre libertà, invece il web per come viene usato è lo strumento più efficace di coloro che queste franchigie le vogliono limitare se non abbattere. Senza scomodare i filosofi, mi limito alla citazione stampata sulle magliette in vendita al Newseum, il museo sulla libertà di stampa di Washington: “La libertà di parola non è una licenza per essere stupidi”.
In nome della sovranità incontestabile del popolo, gli edificatori del governo Grillini-Lega, per esempio, si sentono investiti dalla missione indicata dalla maggioranza degli elettori: lo stesso inattaccabile principio di maggioranza che nel 1933 portò legalmente al potere il partito nazista. Negli Stati Uniti il cittadino Jeff Bezos predica benissimo sulle colonne del suo Washington Post, un simbolo della libertà di stampa. Ma il magnate Jeff Bezos razzola malissimo quando sfrutta i suoi dipendenti, mira al monopolio della distribuzione libraria, dimostra un’avidità da “Trangugia&Divora” e quando contribuisce a scavare il solco fra i pochi ricchissimi e i molti sempre più distanti.
Come Bezos è deludente la maggioranza degli imprenditori della nuova economia, del business del futuro: avidi e istintivamente portati al modello oligarchico come i loro colleghi russi, tutt’altro che migliori dei vecchi padroni delle ferriere. A volte peggiori: mezzo secolo fa General Motors, allora il più grande datore di lavoro negli Stati Uniti, pagava i suoi dipendenti 30 dollari l’ora (al valore del 2016); Walmart, che oggi ne ha preso il posto come primo creatore d’occupazione, 8.
E’ in questo, nell’economia, che il bimestrale Foreign Affairs individua la principale minaccia al sistema liberale, in una serie di saggi intitolati “Sta morendo la democrazia?”. Nel 1850 il 64% della popolazione americana si guadagnava da vivere con l’agricoltura. Con lo sviluppo della Rivoluzione industriale, nel 1900 i contadini erano il 38%. Dopo il processo di urbanizzazione, lo sviluppo dell’economia dei servizi e dell’automazione, oggi è il due. Nel secondo decennio del XXI secolo agricoltura e industria manifatturiera insieme sono solo il 15% della forza lavoro. Rispetto alla tradizionale, la nuova industria assume rapidamente ma ancora più velocemente licenzia.
Quello che non dicono mai le opposizioni o chi vince le elezioni sulla base di promesse impegnative, è che non c’è programma di governo che possa risolvere il problema della disoccupazione. E’ stato calcolato che negli Stati Uniti robotizzazione e sviluppo tecnologico sono la causa dell’85% della perdita di posti di lavoro: gli accordi commerciali del 13%, a dispetto di quanto millanta Donald Trump quando rivendica come Matteo Salvini precedenze per il lavorato autarchico. In Europa e in Italia le percentuali sono un po’ diverse ma quella è la tendenza.
Tutto questo ha contribuito a portare alla crisi del modello politico, sociale ed economico del dopo-guerra, che aveva garantito la crescita dell’Occidente. La stabilità democratica aveva tre attributi, scrive Foreign Affairs: “relativa uguaglianza, rapida crescita del reddito per la maggioranza dei cittadini e il fatto che i rivali autoritari della democrazia erano meno agiati”. Oggi due terzi dei 15 paesi più ricchi del mondo non sono democrazie. Iran, Kazakhstan e Russia garantiscono ai lor cittadini un reddito medio superiore ai 20mila dollari. La Cina ha ancora grandi zone di sottosviluppo ma i 420 milioni delle province costiere hanno un reddito in crescita di 23mila dollari.
“Modernità autoritaria”. E’ così che Yascha Mounk e Stefan Foa chiamano il modello che si sta sostituendo al secolo democratico, in uno dei saggi pubblicati da Foreign Affairs. “L’abilità dei regimi autocratici di competere con la prestazione economica delle democrazie liberali è un nuovo sviluppo particolarmente importante”.
Non solo in economia ma anche nel “soft power”, nella capacità di vendere il propri modello. Una volta nessuno, nemmeno i russi, trovava interessante leggere la Pravda. Oggi i paesi illiberali usano i canali all news in inglese, proponendo la loro narrativa: la cinese CCTV, la russa RT; al Jazeera e al Arabiya di re ed emiri. Fra le prime 250 università del mondo ce ne sono 16 in Cina, Russia, Araba Saudita, a Singapore.
Il problema non è più quanto la Russia abbia interferito nell’ultima campagna presidenziale americana: è accertato, bisogna solo capire se è coinvolto anche Trump. Ma che un numero crescente di paesi illiberali tentino regolarmente di influenzare i sistemi politici delle democrazie. A Washington sauditi e qatarini spendono in lobbisti più dei produttori americani di armi. L’Istituto Confucio controlla le migliaia di studenti cinesi nelle università americane ed europee, trasformandoli in agenti della loro propaganda. Senza un’ombra di vergogna, l’ex cancelliere Gerhard Schroder partecipa in prima fila a tutte le cerimonie al Cremlino.
Un numero crescente di europei (e di americani, visto come è finita la campagna presidenziale del 2016) si sta convincendo che la crescita economica non dipenda dalle libertà democratiche, dall’esistenza di società aperte e tolleranti. E che la prima sia preferibile alle seconde. Chi crede che il problema sarà risolto alle prossime elezioni, temo si sbagli.
http://ispionline.it/it/slownews-ispi/
Allego un commento sul conflitto israelo-palestinese pubblicato sulle pagine del Sole 24 Ore e un articolo sui 70 anni d’Israele uscito nell’inserto culturale della domenica.