“Se Trump incontrerà Kim, perché non anche Rouhani?”, si chiede su Al-Monitor Akiva Eldar, ex grande firma del quotidiano israeliano Ha’aretz. In fondo sempre di programmi nucleari si tratta.
Ci sarebbe più di una logica ragione perché americani e iraniani si riguardino negli occhi per cercare la strada verso un graduale raffreddamento della loro disputa, diventata il cuore della più grande disputa mediorientale. Invece non accadrà e diversamente da Eldar, altri israeliani, quelli dei vertici militari e dei servizi di sicurezza, prevedono uno sviluppo opposto: un “May Madness”. Un maggio di follia nel quale, il 6, ci saranno le elezioni libanesi rinviate per anni e il cui risultato potrebbe riportare sul paese il vento della vecchia guerra civile fra sciiti, sunniti e cristiani; il 12 voterà l’Iraq, indeciso se restare nella sfera americana o scivolare verso quella iraniana; lo stesso giorno – la coincidenza è fortuita – Donald Trump ripudierà il JCPOA, cioè l’accordo sul nucleare iraniano. Di questo sono quasi tutti certi.
Il corollario, magari già entro la fine del “May Madness”, è un attacco missilistico ai siti nucleari iraniani, condotto dagli americani, dagli israeliani o da entrambi. Questo è ciò che pensano gli israeliani: il governo Netanyahu lo agogna, i vertici militari storicamente più pragmatici dei politici lo temono. Forse è una previsione catastrofica, almeno per il momento. Ma sul ripudio del Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), come lo chiama la diplomazia, scommettono quasi tutti, non solo in Israele. Il 12 maggio è il giorno in cui gli Stati Uniti devono decidere se esentare o meno l’Iran dalle sanzioni.
Se nella penisola coreana la storia può finire bene e in Medio Oriente no, è perché le due vicende hanno qualche similitudini e alcune importanti differenze:
- I volti del presidente Hassan Rouhani e del suo colto e pragmatico ministro degli Esteri Mohammad Jafar Zarif, sono quelli di una parte del potere iraniano. L’altra più decisiva che controlla le guerre, la sicurezza, le ambizioni e le anime degli iraniani, sono altre: hanno le fattezze del clero, dei pasdaran, dei comandi militari. A Pyongyang il leader supremo è Kim.
- Nella penisola coreana e in Asia orientale non c’è nessuno – nemmeno i giapponesi – che spinga Trump a non trattare con Kim. Nel Levante a fare lobbying per la denuncia degli accordi nucleari, sono i due principali alleati americani: Arabia Saudita e Israele.
- In Corea il programma nucleare del Nord è tutto, quello iraniano quasi non è più il vero tema del contendere. Ciò cui punta l’amministrazione Trump è il contenimento geopolitico dell’Iran, dell’alleato russo, di Assad e di Hezbollah.
C’è un grande malinteso implicito all’accordo firmato nel 2015 da Iran, Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Russia, Cina, Germania e UE. Il resto del mondo dava per scontato che con il congelamento del nucleare iraniano sarebbe stato sospeso il programma missilistico, cioè il vettore dell’eventuale bomba. E l’accordo avrebbe dovuto aprire una stagione virtuosa: fine delle sanzioni, contratti, affari, diplomazia.
Invece dal 2015 l’Iran ha continuato a sviluppare il suo missile balistico – non potrebbe raggiungere gli Stati Uniti, ma Riyadh e Tel Aviv si – e soprattutto ha rafforzato la sua presenza in Siria, Iraq e Libano. Per iniziativa di Emmanuel Macron, gli europei hanno cercato di riaprire la trattativa con l’Iran su missili e ambizioni geopolitiche. Ma non sono solo militari e ayatollah a non avere intenzione di avviare il negoziato: non se lo può permettere Rouhani né forse lo vogliono alcuni europei.
Come dice Federica Mogherini, alto rappresentante UE per esteri e sicurezza, quello che Trump vuole far saltare non è un accordo bilaterale fra Usa e Iran ma un documento con molti firmatari. Il compromesso potrebbe continuare a restare in vigore anche senza Washington. E’ vero, ma agli iraniani importano gli americani: senza di loro, l’accordo decade.
Così prende corpo il folle mese di maggio, quando il Medio Oriente potrebbe diventare peggiore di ciò che già è. Soprattutto ora che dopo Tillerson è stato fatto fuori un altro internazionalista come H.R. McMaster. Al suo posto di consigliere per la sicurezza nazionale, cioè chi sussurra consigli all’orecchio del presidente, ora c’è l’iper-falco John Bolton. “La soluzione dei due stati è morta”, è la sua opinione sulla questione palestinese; “Il nostro obiettivo dev’essere il cambio di regime a Teheran”, è quella sull’Iran.
Mi è rimasta una sola curiosità. Più o meno sempre a Maggio, con quale stato d’animo Kim Yong-un si siederà al tavolo della trattativa con un presidente americano che sullo stesso tema – la bomba -ha appena ripudiato un accordo preso da un altro presidente americano?
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