A tutti noi che ne parliamo e ne scriviamo da due anni – all’inizio per motivi di lavoro, poi per qualcosa di più forte – sembra di aver sempre conosciuto Giulio Regeni. Un amico di lunga data per i più giovani, un figlio per noi più anziani. Soprattutto guardando il video del suo colloquio con l’ambulante egiziano che poi sarà il suo delatore: la voce, il gesticolare di Giulio, la passione civile e la curiosità per il mondo che traspaiono.
Dopo due anni siamo ancora lontani dalla verità nonostante qualche passo inaspettato sia stato compiuto. Quando ci lamentiamo della lentezza del procedere, dovremmo ricordarci due verità: che nell’Italia civile e democratica Ilaria Cucchi sta aspettando giustizia da sette anni; e che noi ne vorremmo avere una rapida ed esaustiva dall’Egitto militarizzato e illiberale di Abdel Fattah al-Sisi. Per quanto Giuseppe Pignatone s’impegni, l’aiuto dalla giustizia egiziana è pressoché nullo: per ogni informazione che ci passano, i nostri inquirenti devono perdere mesi a verificarne l’autenticità.
L’altro ieri, annunciando il ritiro dalla corsa alle presidenziali di marzo, Mohammed Sadat, nipote dell’ex capo dello stato, ha spiegato che nel paese “c’è un’atmosfera di paura”. Un altro candidato era stato arrestato il giorno precedente. Come nella prima elezione, anche nella seconda al-Sisi sarà eletto dalla caserma Egitto, non dal popolo egiziano. Quindi rassegniamoci: la verità su Giulio l’avremo solo se e quando il regime cadrà.
Intanto abbiamo rimandato l’ambasciatore al Cairo. Anche questa decisione è stata molto criticata. Io credo invece che fosse necessaria. La prima, elementare, ragione è che nei quasi due anni nei quali non l’abbiamo avuto, non è accaduto nulla riguardo alla verità su Giulio. Giampaolo Cantini non ha i poteri per avere giustizia ma l’autorevolezza necessaria per bussare alle porte del potere, dietro le quali si nascondono gli assassini. E’ ovvio che gli egiziani si siano venduti l’arrivo di Cantini come “la fine del caso Regeni”. Per loro il caso era chiuso già prima. Tocca all’ambasciatore e al governo deludere gli egiziani.
Sapendo con chi abbiamo a che fare al Cairo, il giudice Pignatone sostiene che per arrivare alla verità sarà importante la solidarietà internazionale. Ecco, anche questo è un obiettivo impossibile quanto sperare nella collaborazione di al-Sisi. Al Cairo la preoccupazione di tedeschi, francesi e inglesi, è che dopo l’ambasciatore, l’Italia rimandi in Egitto anche delegazioni economiche a caccia di affari. Qualcuno in Europa sogna ancora che prima o poi l’Eni debba rinunciare all’investimento previsto fra i 5 e i 10 miliardi di euro per sviluppare Zhor, l’enorme giacimento di gas davanti alle coste egiziane.
L’interscambio italo-egiziano vale cinque miliardi di euro, le nostre aziende in quel paese producono un fatturato di altri cinque. Due anni fa erano state congelate trattative per nuovi progetti del valore di quasi tre miliardi. Su questi si sono buttati come avvoltoi quei paesi dai quali il dottor Pignatone spera di avere solidarietà.
Qualcuno di voi penserà sia irrispettoso ricordare i nostri interessi economici in Egitto il giorno in cui celebriamo la scomparsa di Giulio. Nel mi cuore lo penso anch’io ma non farei il mio mestiere se ignorassi queste cifre e il nostro isolamento internazionale; se non tenessimo conto che l’export è il 30% del Pil italiano e centinaia di miglia di posti di lavoro.
Ma vorrei concludere proponendo un breve commento che due anni fa scrissi per il sito del Sole 24 Ore e che un talk show della Rai scoppiazzò, vendendolo per suo.
Siamo sempre più numerosi noi, genitori di tanti Valeria Solesin e Giulio Regeni. Ed è un bene per l’Italia, anche se a volte, molto raramente, qualcuno dei nostri ragazzi non torna più a casa. Giulio aveva deciso di andare in un luogo più pericoloso, anche se nulla al Cairo giustificava una fine così. Valeria era solo a Parigi, un’ora d’aereo da casa, difficile immaginare una città più europea. Il primo stava andando a incontrare amici, la seconda a sentire musica con amici al Bataclan.
Ma non è questo il punto. Nessun luogo è pericoloso e tutti lo sono, ormai. Tuttavia il pericolo non ferma questi giovani, i nostri figli, dal conoscere il mondo, viverci, imparare le lingue, soddisfare una curiosità vorace della quale dobbiamo essere orgogliosi, non spaventati, noi genitori. Ci sono ragazzi che non sono interessati a nulla e ragazzi, i nostri, che vogliono sapere tutto; che coltivano ancora la prerogativa più bella di un giovane: la passione.
Vancouver, Londra, Parigi, Cairo, Città del Capo, Dacca, Buenos Aires, Nairobi, Shanghai. Come Valeria e Giulio, i nostri ragazzi non partono più per necessità – anche se molti cercano lavoro – ma per curiosità. Non fuggono, se ne vanno da casa per scelta, per saperne di più, per essere migliori. Qualcuno ha cercato una definizione: «Generazione Erasmus». È una buona sintesi perché quel programma è stato il motore di avviamento di questo processo di globalizzazione reale. Ma ormai è molto di più. È aver chiarito a se stessi che non c’è luogo migliore di quello in cui sei nato e cresciuto, ma che non sei nato solo per capire questo.
Tutti noi genitori ci auguriamo che i figli prima o poi tornino: non tanto a casa in senso stretto, quanto in Italia, a rendere migliore con la loro esperienza questo Paese. Lungo il loro cammino, Valeria e Giulio hanno incontrato chi glielo ha impedito. La cosa peggiore che potremmo fare nel rispetto del loro sacrificio e della loro memoria, sarebbe pensare che il mondo sia un luogo pericoloso. Lo è, in effetti. Ma non abbastanza da fermare i nostri figli.
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