“Se miliardi nel mondo possono ascoltare la voce della Cina (grazie alle nuove tecnologie e ai social, n.d.r.), il mondo diventerà un posto migliore”, diceva Mark Zurkerberg nella Grande Sala del Popolo, a Pechino. Il congresso del partito era appena finito e il creatore di Facebook era il primo straniero a complimentarsi con Xi Jinping per i suoi successi, insieme a Tim Kook di Apple e a un’altra ventina di tycoon della tecnologia e della finanza americani.
I dieci secondi abbondanti dei loro applausi al nuovo Grande Timoniere erano il pezzo forte dei cinque minuti del servizio trasmesso in prima serata dalla Tv cinese. Applausi al discorso di Xi nel quale, tra le altre cose, si affermava che educazione è “insegnare ai costruttori e agli eredi del socialismo dalle caratteristiche cinesi”, non anche agli altri, “agli oppositori”. Inutile ricordare che il risultato fondamentale del XIX congresso era stato che “il partito guida tutto”.
E’ curioso che i signori del web, dell’hi-tech, della libertà di espressione senza frontiere accettino blocchi e censure pur di restare nel lucrativo mercato cinese. E che contemporaneamente, come un qualsiasi padrone delle ferriere del XX secolo, scatenino i loro lobbisti al Congresso contro l’ipotesi che il governo americano imponga delle regole minime alla vendita di pubblicità sui social, dopo lo scandalo delle interferenze russe. Come dei in un Olimpo intoccabile, pretendono di essere i regolatori di se stessi. “Non sono sicuro abbiano pienamente compreso le implicazioni di tutto il loro potere”, commentava il senatore democratico Max Warner dopo le audizioni al Congresso dei responsabili delle principali imprese tecnologiche.
Se cercate le loro brochure virtuali, soprattutto dei big five – Apple, Amazon, Google, Facebook e Microsoft – vi sembrerà di essere davanti alla nuova frontiera dell’umanità: diffondere le virtù della tolleranza e della libertà di espressione come mission aziendale; inclusione per donne e minoranze; la tecnologia garantirà libera comunicazione e imprenditorialità contro le tirannie.
Poi il principe ereditario saudita fa arrestare cugini e uomini d’affari di casa reale, e scopri che il paese più reazionario che ci sia, quello che nega alle donne anche il diritto di guidare, possiede quote importanti dell’industria tecnologica americana. Solo Kingdom Holding del principe Alwaleed ha investito 300 milioni di dollari in Twitter e 105 in Lyft. O indagando sulle interferenze russe salta fuori, fra le tante cose, che gli investimenti in Facebook e Twitter di Yuri Milner, oligarca russo vicino a Putin, erano stati in parte finanziati da imprese controllate dal Cremlino. Molto prima che si scoprisse quanto facile sia stato usare le più grandi compagnie tecnologiche americane per diffondere la propaganda russa durante la campagna presidenziale del 2016.
Recentemente la stampa – la stessa “stampa, bellezza” contro la quale i vecchi padroni delle ferriere non potevano fare nulla, salvo comprarsi le case editrici – ha scoperto che anche la Silicon Valley produce favelas. Il successo delle imprese tecnologiche che attorno a San Jose costruiscono palazzi sempre più avveniristici per ospitare le loro sedi, ha fatto salire alle stelle il costo della vita in quella parte di California.
Per i consigli d’amministrazione che si concedono stipendi e buonuscite milionarie come nella vecchia industria trangugia & divora, non è un problema. Per gli altri dipendenti sempre più poveri, lo è: gli elettricisti, i muratori, gli operai, i tecnici meno specializzati richiamati dalle opportunità di lavoro nella Silicon Valley, non ricevono stipendi adeguati e vivono nelle auto, nelle tende, nelle baracche. La new economy ha uno slogan: piena povertà in piena occupazione.
Forse Jeff Bezos, il sempre più ricco padrone di Amazon, crede che per essere democratico basti comprare il Washington Post e ritrasformarlo nel bastione del pensiero liberal americano. Forse gli altri suoi colleghi credono sia sufficiente opporsi a Donald Trump; o finanziare campagne di vaccinazione in Africa per mascherare gli affari con i regimi illiberali. Etica e coerenza on demand. I loro prodotti tecnologici offerti con magnanimità ai poveri e agli oppressi del mondo (nei paesi Ocse l’obsoleto Iphone 5 del 2012 non lo vuole più nessuno) sono come le brioches di Maria Antonietta.
Scrive Farhad Manjoo sul New York Times: “Le più grandi invenzioni umane tendono a cambiare la società più profondamente di quanto potessimo immaginare. Questo è ancor più vero per le tecnologie che usiamo oggi, e lo sarà di più per le cose che avremo domani. Internet, i cellulari, i social networks, l’intelligenza artificiale, metteranno a soqquadro lo status quo. Sarà nostro compito, in quanto società civile, decidere come mitigare i loro effetti negativi”.