Little Big Horn: nativi contro migranti

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Sapendo che non tutti gli iscritti alla mailing list di Slow News sono lettori del Sole né passano il loro tempo su Facebook, pubblico sul blog il reportage dal Montana uscito domenica scorsa nelle pagine culturali del mio giornale. Allego in fondo anche il commento pubblicato dal Sole sull’attentato di Gerusalemme.

La vista del campo di battaglia è eccellente dal patio del visitor center: un declivio vasto e irregolare che sale dal fiume, il Little Big Horn. Vegetazione scarsa, a parte l’erba alta simile a un mare mosso dal vento a ondate regolari. Anche le nuvole corrono sullo sfondo di un cielo intensamente blu. Sembra una banale descrizione della quinta di un film di genere. Ma non c’è niente da fare: il West è proprio così quando non piove.

Ogni ora il ranger di turno fa ai visitatori un’articolata descrizione dello scontro. Centocinquanta anni dopo, Little Big Horn continua ad essere la battaglia più famosa dell’epopea della frontiera, seconda nella storia americana solo a quelle della Guerra civile, nonostante non avesse i numeri per tanta fama: meno di 1500 combattenti e 350 morti, sparsi per diversi chilometri quadrati in cento piccole scaramucce. Nessuna cavalleria alla carica né manovre folgoranti: fu soprattutto un confuso corpo a corpo nella vallata. Il punto più drammatico della battaglia è il “last stand”, dove oggi sorge uno scarno monumento, cinquanta metri a sinistra dell’osservatorio del visitor center: una china indifendibile nell’ultima resistenza di Custer con una quarantina di cavalleggeri del 7°. Indiani sotto, ai lati e anche oltre la cresta del declivio. Per creare un inutile riparo, i soldati dovettero uccidere i loro cavalli.

Fu la conseguenza di un grave errore: quel 25 di giugno del 1876 Custer aveva diviso il 7°, portando con sé solo 262 uomini, senza immaginare di entrare in un territorio nel quale 8mia indiani, donne e bambini compresi, erano venuti a celebrare Wiwayang Wacipi, la danza del Sole. Quel giorno il distaccamento di cavalleria si trovò davanti un numero di guerrieri tre volte più grande, forse un migliaio di uomini a cavallo. I soldati morirono tutti con il loro comandante. Quanto agli indiani, secondo gli storici dovrebbero esserne caduti meno di cento.

Solo verso la fine della descrizione, il ranger del campo di battaglia diventato parco e monumento nazionale, ricorda anche il coraggio dei guerrieri Lakota (cioè i Sioux), Cheyenne e Arapaho. C’erano anche gli Shoshone che essendo nemici dei Cheyenne, combatterono come scout con le giubbe blu. Fu “un inevitabile scontro di civiltà” ed era evidente che prima o poi gli indiani avrebbero dovuto “cedere il passo al progresso”, spiega la guida con triste rassegnazione.

Il vero “last stand” non fu quello del tenente colonnello George Amstrong Custer ma del popolo indiano. Little Big Horn fu l’ultima resistenza all’avanzata dei bianchi resi sempre più forti da un flusso senza fine d’immigrati europei che non sbarcavano a Ellis Island per fermarsi a New York ma penetravano nel continente in cerca di un lavoro e un futuro. Come i migranti di oggi che arrivano a Lampedusa con l’intenzione di proseguire verso Nord. Le tribù delle grandi pianure non avrebbero più vinto battaglie. Dopo Little Big Horn cercarono solo di sopravvivere alla pulizia etnica e alla normalizzazione. “Uccidi l’indiano, salva l‘uomo” era la formula di Richard Henry Pratt, l’educatore al quale il governo affidò il compito di sradicare migliaia di bambini indiani dalle loro famiglie e dalla loro cultura: una specie di piccolo dottor Mengele. Il risultato finale è che oggi gli indiani d’America, compresi gli esquimesi dell’Alaska, sono lo 0,9% della popolazione americana.

Come un viaggio nella cultura maya e azteca necessita una visita preventiva al Museo nazionale di antropologia di Città del Messico, così un viaggio nel West deve essere preceduto da un’immersione nel Museo nazionale degli indiani d’America, sul Mall di Washington. Soprattutto al quarto piano, intitolato “Nation to Nation” dove è esposto “American Progress”, il quadro che John Gast fece nel 1872: soldati, pistoleri, carovane, treni, operai e contadini vengono da Est seguendo un’immagine stilizzata dell’America, cacciando indiani, bisonti e orsi verso Ovest. “La Provvidenza ha premiato questo Paese su scala gigantesca: il suo destino è andare avanti e nessun potere sulla terra potrà fermarlo”, scriveva Pieter-Jean De Smet, missionario gesuita – un belga – diventato ideologo dell’eccezionalismo americano. Una sala del quarto piano del museo di Washington è dedicata agli oltre 400 trattati di pace fra i coloni e poi i governi americani, e gli indiani. Tutti infranti dai bianchi. Il più famoso fu Horse Creek del 1851, contratto con tutte le tribù delle grandi pianure, diventato famoso come “The Great Smoke” per i 15mila calumet della pace fumati inutilmente in un solo pomeriggio. Fu la più spettacolare prova della volontà degli indiani di vivere in armonia con i bianchi.

“Non vi avevamo chiesto di venire qui”, disse Cavallo Pazzo, l’altro protagonista indiano di Little Big Horn, secondo solo a Toro Seduto, quando si arrese un anno dopo la battaglia. “Il Grande Spirito ci ha dato questo paese come nostra casa, voi avete la vostra. Non vogliamo la vostra civiltà!”. Oltre al monumento ai caduti del 7°, nel 1881 gli americani scavarono un cimitero per i loro cavalli. Nel 1941 gli animali furono celebrati con la lapide di granito bianco che esiste tutt’ora. Il memoriale dei guerrieri indiani fu costruito mezzo secolo più tardi, nel 1991, su autorizzazione del Congresso: “L’interesse pubblico sarà meglio servito realizzando un memoriale per onorare e riconoscere gli indiani che combatterono per preservare la loro terra e la loro cultura (Public Law102-201)”. Anche il Museo degli indiani d’America sul Mall di Washington è stato inaugurato solo nel 2004, undici anni dopo il museo della Shoah, pure quello sul Mall: è sempre più facile riconoscere un olocausto compiuto da altri che un genocidio fatto dalla tua gente.

C’è chi sostiene che l’immigrazione clandestina in America sia incominciata il 12 ottobre 1492. Se è così, Little Big Horn fu solo un passaggio di questo processo senza fine: la metà dei caduti del 7° erano immigrati irlandesi, tedeschi, inglesi, italiani, polacchi. “Abbiamo solo ucciso soldati che erano venuti a uccidere noi”, avrebbe sintetizzato molti anni dopo Gamba Ferita, uno dei reduci cheyenne. Ogni battaglia ha una sua frase famosa: “merde”, “nuts”, “il mio regno per un cavallo”, “noi banda di fratelli”, “fermati o sole”. Quella di Little Big Horn la gridò Cavallo Pazzo ai suoi guerrieri Lakota: “Hoka Hey!”, oggi è una buona giornata per morire.

 

PERCHE’ GERUSALEMME NON E’ NIZZA

 

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