A 23 giorni dalla fine del mandato, John Kerry aveva finalmente mostrato il volto dell’America, quasi sempre tenuto nascosto nel conflitto fra israeliani e palestinesi: quello dell’honest broker, del mediatore onesto fra le due parti in conflitto. Presidenti repubblicani o democratici, gli Stati Uniti hanno sempre privilegiato le ragioni degli israeliani e quasi sempre denunciato i limiti palestinesi. Mai il contrario.
Nel suo discorso d’addio al dipartimento di Stato, una specie di cammino a ritroso sui passi perduti, John Kerry aveva denunciato gli ostacoli alla pace posti dal governo israeliano di estrema destra, il cui obiettivo è sempre più chiaramente quello di un unico stato ebraico senza quello palestinese alle sue frontiere. Il segretario di Stato aveva ricordato i pilastri di una pace che invece prevede la nascita di due stati: il ritorno alle frontiere del 1967 con modifiche territoriali negoziate, Gerusalemme capitale dei due stati, il ritiro delle colonie ebraiche, le modalità per garantire la sicurezza dello stato ebraico.
Il discorso era rivolto agli israeliani più che ai palestinesi. Tuttavia sarebbe stato meglio se Kerry avesse ricordato a questi ultimi un’altra colonna della pace: la necessità dei palestinesi di riconoscere che il diritto al ritorno dei profughi potrà avvenire solo all’interno dello stato palestinese che nascerà. In ogni caso, come ha scritto il New York Times, Kerry ha parlato agli israeliani “con una chiarezza e una durezza quasi mai sentita da un diplomatico americano”.
Sono d’accordo, era ora, sebbene a 23 giorni dalla fine della presidenza democratica. Dove è stata l’amministrazione Obama nei precedenti 2.897 giorni dei sui due mandati? Quando mai Hillary Clinton, segretaria di Stato prima di Kerry, si è occupata della questione? E perché dopo un promettente inizio, lo stesso Obama ha lasciato Kerry da solo a tentare di negoziare la pace più difficile del mondo?
Dei 70 minuti del discorso di John Kerry ho trovato particolarmente importante una considerazione: “Qualcuno sembra credere che l’amicizia americana significhi che l’America debba accettare qualsiasi politica, indipendentemente dai nostri interessi, le nostre posizioni, le nostre stesse parole, i nostri principi”. Invece “gli amici devono dirsi la verità”. E’ una considerazione che sento particolarmente mia. Come prevedibile, Kerry è stato accusato di essere antisionista, antisemita, perfino negazionista e tutto il resto dell’arsenale retorico che il populismo scatena in questi casi: nel mio piccolo, ne so qualcosa.
E’ invece da amici ammonire che la soluzione del conflitto attraverso un solo stato ucciderà – anzi, sta già uccidendo lentamente – la democrazia israeliana. Controllando alcuni milioni di palestinesi musulmani e cristiani, Israele dovrà decidere se essere una democrazia, dando agli altri cittadini gli stessi diritti; o essere lo stato degli ebrei, negando agli altri quei diritti.
Sono d’accordo con Ha’arez secondo il quale il discorso di John Kerry è stato “superbamente sionista, a favore di Israele e in ritardo di tre anni”, (secondo me di quasi otto). I veri nemici sono persone come David Friedman, il prossimo ambasciatore in Israele scelto da Donald Trump: Friedman è dichiaratamente contro la soluzione dei due stati e favorevole alla moltiplicazione delle colonie al punto da finanziarne l’impresa. A Friedman non basta applicare la teoria del “giusto o sbagliato, il mio paese”, il mantra dell’Aipac verso Israele (esiste negli Usa anche una lobby ebraica liberal, J Street, che invece sostiene il processo di pace e con un’affiliazione italiana jcall.italia@gmail.com ). Friedman istiga Israele a fare cose sbagliate, quelle che isoleranno Israele.
Di fronte a questa realtà e all’immediato futuro trumpista che ci attende, trovo sia una banale scappatoia diplomatica quello che aveva detto il presidente del Consiglio Gentiloni, alla conferenza stampa di fine anno: “Non si può pensare alla pace isolando Israele”. Ma se è Israele (quella di Netanyahu, elettoralmente la maggioranza) a isolare se stesso come sta facendo dopo il voto del Consiglio di sicurezza, cosa si fa? Lasciamo stare la pace?
Condivido la resistenza morale a isolare Israele: per noi non è un paese come gli altri. Sono nato dieci anni dopo la fine dell’Olocausto, sono europeo e cristiano (intendo crocianamente). Fatico a isolare Israele come potrei fare più facilmente con la Cina che in Tibet ugualmente ha oppresso un altro popolo. E’ un mio limite, lo riconosco, ma è così. So che in Israele e non solo, da anni molti approfittano di questo senso di colpa collettivo: consiglio sul tema la lettura di “The Seventh Million – The Israelis and the Olocaust”, dello storico israeliano Tom Segev. Ma non c’è considerazione politica che mi convincerebbe a rinunciare al mio senso di colpa, l’unica espiazione che mi rimane per quello che europei e cristiani come me hanno fatto a sei milioni di concittadini europei di religione ebraica.
Tuttavia seguo la vicenda israelo-palestinese da molti anni, sicuramente troppi. E ricordo che nel 1991, dopo avere liberato il Kuwait e distrutto l’esercito di Saddam Hussein dando allo stato ebraico un grande vantaggio strategico, l’amministrazione repubblicana di George Bush padre, isolò Israele. Yitzhak Shamir, già terrorista della Banda Stern (tutti i movimenti di liberazione nazionale hanno anche un’eredità terroristica, quello ebraico compreso), si rifiutava di partecipare alla conferenza di pace. Bush e il suo segretario di Stato Jim Backer, congelarono le garanzie americane sui crediti a Israele e ammonirono Shamir che per ogni nuovo mattone posto nelle colonie ebraiche nei territori occupati, l’America avrebbe scalato un dollaro dai suoi aiuti.
Il risultato fu che Israele andò alla conferenza di Madrid, l’anno dopo Shamir perse le elezioni, Yitzhak Rabin divenne premier e si aprì una grande stagione di speranza. Isolare Israele a fin di pace si può, dunque: dipende da quale Israele. Buon Anno a tutti.
Allego gli ultimi commenti dedicati alla Russia in Medio Oriente, allo scontro Obama-Putin, al caso Regeni e al voto su Israele al Consiglio di sicurezza Onu, usciti in questi giorni sul Sole 24 Ore.