“Ci sono cose di cui mi rammarico. Per esempio gli insediamenti nei Territori nei quale, sfortunatamente, io stesso ho messo mano, e che sono stati un grande errore”, aveva scritto Shimon Peres nelle “Rifressioni di un ottuagenario” pubblicate da Yedioth Ahronoth nel 2007.
Quasi non c’è israeliano che nel 1967 non si sia entusiasmato per la folgorante vittoria militare e che col tempo non se ne sia pentito e non abbia tentato di ripararne i danni cercando la pace con gli arabi. Allon, Peres, Dayan, Weizman, Rabin, Barak: praticamente tre generazioni di politici e di militari, compreso Ariel Sharon che odiava gli arabi; anche Ehud Olmert che aveva fatto il sindaco di Gerusalemme pensando che la città fosse abitata solo da ebrei; anche Tsipi Livni, nata e cresciuta da genitori militanti del sionismo revisionista più violento, ricercati per terrorismo dagli inglesi. Tutti erano partiti con l’idea di vincere e tutti sono arrivati a comprendere la necessità del compromesso politico per garantire il futuro d’Israele.
Poi ci sono gli irriducibili. Quelli di parte israeliana che parlano la stessa lingua di Hamas, certi che dio, la superiorità razziale e le armi, garantiranno la vittoria assoluta della loro causa. Come ho sottolineato nella prima parte, mai il governo israeliano è stato così pieno di questi estremisti.
C’è Naftali Bennet che in campagna elettorale si era vantato di aver ucciso molti arabi; c’è la ministra della Cultura Miri Regev che vuole trasformare in un grande Minculpop un paese dal dibattito vibrante, dove si pubblica il maggior numero di titoli di libri al mondo in proporzione agli abitanti. Lei, Miri l’estremista, che ha dichiarato agli artisti di Israele la stessa guerra che il nuovo ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha dichiarato ai generali. Poi c’è la vice ministra degli Esteri Tzipi Hotoveli, ebrea ortodossa, pasionaria dell’intolleranza: “Questa terra è nostra, tutta”, era stata una delle sue prime dichiarazioni ufficiali.
Quando Lieberman è entrato nell’esecutivo, il ministro dell’Ambiente Avi Gabay ne è dignitosamente uscito in segno di protesta. Ma l’unica preoccupazione del leader del suo partito di centro, Moshe Kahlon, un possibile successore moderato di Bibi Netanyahu, era che il posto vacante restasse alla sua forza politica. A parte i militari diventati la sezione più responsabile del paese, le opposizioni e la stampa, l’unica democrazia del Medio Oriente è per ora governata dall’esecutivo più reazionario della sua storia, apparentemente senza pericoli imminenti.
Più di 200 militari, funzionari dei vari servizi segreti e della polizia hanno firmato un documento nel quale si chiede all’esecutivo di “mantenere le condizioni” politiche per la ripresa del dialogo con i palestinesi: l’esatto contrario di quello che il governo intende fare, soprattutto ora che vi è entrato anche il buttafuori moldavo. Ora Isaac Herzog sta pensando di fare entrare anche i laburisti in questo strano governo di coalizione a maggioranza reazionaria: è un comprensibile tentativo di cauterizzare questo esecutivo e anche la dimostrazione di debolezza di un partito che dal 1976 ha vinto solo tre elezioni, due su tre di misura.
Come detto nella prima parte, Lieberman è il punto più vicino alla metastasi di quel male iniziato con l’occupazione dei Territori nel 1967. Ma sono anni che è sempre più evidente il diffondersi del veleno nel corpo sociale di Israele, prodotto da quella conquista territoriale. Il massacro di 29 palestinesi computo a Hebron da un medico israeliano nel 1994 e l’omicidio di Yitzhak Rabin nel ’95 erano stati solo i primi segnali.
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Il generale Elad Peled, capo del Collegio della difesa nazionale, il centro studi delle forze armate, lanciò l’allarme nel 1966. Incaricato di analizzare gli effetti di una eventuale occupazione dei Territori palestinesi, Peled constatò che prima o poi la popolazione palestinese avrebbe superato per numero quella ebraica. In caso di annessione, Israele avrebbe dovuto dare pieno diritto di cittadinanza alla maggioranza araba. Oppure chiuderla in zone isolate. Un segregazionismo, concluse Peled, che “noi come popolo e come ebrei aborriamo”. Mi faccio pubblicità: potete saperne di più leggendo il mio libro “Il sogno incompiuto” (Marco Tropea, 2008).
Le preoccupazioni teoriche di Peled diventarono realtà quando, 28 anni dopo l’occupazione, la questione demografica fu posta ad Ariel Sharon da Sergio Della Pergola. Nel 2020 nel territorio fra il Mediterraneo e il Giordano (Israele, Gaza e Cisgiordania), spiegò Della Pergola, uno dei massimi demografi mondiali, gli ebrei sarebbero stati il 40%, e dentro Israele la popolazione ebraica che nel 2005 era l’88%, sarebbe scesa al 64.
Fu per questo che Sharon, conquistatore di territori arabi, decise il ritiro da Gaza e lo smantellamento progressivo delle colonie in Cisgiordania. Lo fece per salvare Israele; per impedire di trovarsi di fronte al dilemma posto dal generale Peled fra uno stato che per mantenere la sua essenza democratica avrebbe perso quella ebraica; e uno che per salvaguardare la sua radice ebraica avrebbe dovuto rinunciare alla democrazia.
La risposta politica al dilemma è la soluzione delle vite separate: due popoli divisi in due stati, uno ebraico e uno palestinese, in pace e sicurezza. A che futuro guardano invece la maggioranza dei ministri dell’attuale governo d’Israele? Cosa vogliono Bennett, Lieberman, Tsipi Hotoveli e Miri Regev, i coloni, gli estremisti nazional-religiosi che non sono maggioranza nel paese ma sembrano esserne i padroni; che passo dopo passo, anno dopo anno prendono possesso dei suoi gangli vitali?
Nel 2025 i coloni saranno 700mila, geograficamente e fisicamente non sarà più possibile far nascere uno stato palestinese. A quel punto i palestinesi diventeranno cittadini d’Israele a pieno titolo, abitanti di seconda categoria o profughi più di quanto già non siano. Anche i comandanti delle forze armate saranno diversi dai razionali generali di oggi: i quadri intermedi sono pieni di giovani ufficiali con la kipa, nati, cresciuti ed educati nelle colonie. Il cancro sarà inguaribile metastasi.
Per come si comportano con le leggi che vogliono far passare, con gli artisti, le organizzazioni pacifiste, gli arabi cittadini d’Israele, i giornali, i generali e chiunque si opponga alla loro idea messianica di nazione, per questi nuovi israeliani la democrazia non è una priorità nemmeno nello stato ebraico. In realtà questa tribù ragiona e parla come molti arabi nei loro regimi: la legge del taglione come massima espressione giuridica; il mio dio è il vero dio; un libro scritto 4mila anni fa trasformato in un testo di geopolitica contemporanea; se non sei con me sei contro di me, gli avversari sono tutti terroristi, gli stranieri sono nemici fino a prova contraria. Il mondo (in questo caso abitato solo da antisemiti) complotta contro di noi; la stessa Europa smidollata che per molti arabi è nelle mani della lobby ebraica, per questi israeliani è ormai caduta in quelle dei musulmani. Forse c’è ancora tempo per salvare Israele da se stesso. Ma diversamente dalle minacce alle frontiere, per questa emergenza l’aiuto militare e politico americano non serve; l’appoggio o i boicottaggi europei sono inutili. Dipende solo dagli israeliani. FINE