Come ogni anno di questi tempi, il Bulletin of the Atomic Scientists fa i suoi calcoli e ci dice quanto siamo lontani dalla nostra autodistruzione. Il Bulletin è il thik-tank dell’Università di Chicago al quale aderiscono i fisici nucleari americani contrari alla produzione e accumulazione per uso militare dell’energia nucleare (sono invece in gran parte favorevoli allo sviluppo civile).
Fatte le loro valutazioni, gli scienziati hanno stabilito che il mondo è a tre minuti dalla mezzanotte. Non è una bella notizia: l’anno scorso eravamo a cinque. A tre minuti eravamo sprofondati nel 1949, quando Stalin fece il suo primo test nucleare, e nell’84 quando tornò il gelo assoluto nelle relazioni fra Stati Uniti e Unione Sovietica.
Prima di spiegare perché siamo scesi così in basso, è necessaria una premessa che riprendo da un altro studio del Bulletin, pubblicato sei mesi fa. “A metà 2014 – scrivono Hans Kristensen e Robert Norris – stimiamo ci siano approssimativamente 16.300 armi nucleari in circa 97 siti di 14 Paesi. Circa 10.000 di queste armi sono in arsenali militari; le altre sono state ritirate e attendono di essere smantellate. All’incirca 4.000 sono operativamente disponibili e più o meno 1.800 sono in massima allerta e pronte per un uso con breve preavviso”, cioè un paio di minuti.
Tornando ai 16.300 ordigni nucleari, per spiegarne la potenza distruttiva, è come se ogni essere umano sulla faccia della Terra avesse fra le mani 680,3 chili di TNT. Ma sono soprattutto americani e russi a portarne il peso perché i due Paesi possiedono il 93% dell’inventario globale. E qui, tenendo conto di questo quadro generale degli arsenali, torniamo al Bollettino degli scienziati di Chicago.
Secondo loro siamo precipitati a tre minuti dalla fine perché “l’ignorato cambiamento climatico, la modernizzazione delle armi nucleari e gli arsenali fuori misura pongono minacce straordinarie all’esistenza dell’umanità. I leader mondiali hanno fallito ad agire con rapidità”. Ma se sul problema climatico ci sono stati “alcuni modesti sviluppi positivi”, sul nucleare militare no.
Il problema non è la trattativa con l’Iran né la Corea del Nord. No, sono gli Stati Uniti e la Russia i veri detentori della chiave per l’inferno. Forse perché ne siamo terrorizzati, tendiamo a rimuovere la peggiore delle conseguenze della crisi ucraina: l’aumento della proliferazione nucleare nei due Paesi. Non in termini numerici: le due potenze restano attorno alle 2.200 armi strategiche operative ciascuna. Anche se la trattativa per scendere a 1.500 è stata congelata; anche se il generale James Cartwright, ex vice capo di stato maggiore americano, sostiene che 900 bombe a testa basterebbero e avanzerebbero.
Il problema, aggravato dal confronto sull’Ucraina, è che Usa e Russia stanno moltiplicando le spese militari e le stanno focalizzando sullo sviluppo tecnologico del nucleare. La crisi economica russa, aggravata dalle sanzioni e dal prezzo del petrolio, sta costringendo il governo a tagliare ogni spesa: ma non quelle militari cresciute del 33%. A Washington il presidente che aveva preso un Nobel per la pace – consegnato con eccessiva fretta all’uomo che aveva promesso “un mondo libero dalla minaccia atomica” – ha autorizzato un piano decennale da 355 miliardi di dollari per rimodernare il sistema nucleare militare. In un trentennio, la spesa prevista è di oltre mille miliardi.
Come diceva qualche tempo fa al New York Times Gary Samore, uno dei principali consiglieri di Obama sulla materia, la crisi ucraina “ha reso politicamente impossibile ogni misura per ridurre unilateralmente gli arsenali”. Come ai tempi più ghiacciati della Guerra fredda, notano gli scienziati del Bulletin, russi e americani “si sono imbarcati in massicci programmi per modernizzare le loro triadi, con ciò minando gli esistenti trattati sulle armi nucleari”. Triade sono i tre modi per lanciare le testate atomiche: dalle basi terrestri fisse e mobili, dai sommergibili sotto i mari e dai bombardieri strategici nei cieli. Inutili per vincere una guerra ma efficaci perché non sopravviva nessuno.
Robert Oppenheimer, il direttore del Manhattan Project dal quale nacque la prima bomba atomica, ha scritto che Stati Uniti e Russia sono come “scorpioni in una bottiglia, ognuno capace di uccidere l’altro ma solo a rischio della propria vita”. Era la fine degli anni Quaranta. Sono passati settant’anni e continua a essere questa l’unica incerta garanzia per non consumare i tre minuti che ci sono rimasti.
Allego due articoli sulla questione ucraina apparsi in questi giorni sulle pagine del Sole.
BURRO O CANNONI PER L’UCRAINA?
LA TRATTATIVA AL CREMLINO