Chiunque vi sia stato una o molte volte in pellegrinaggio, vacanza o per lavoro. Chiunque lo ami, lo stimi o lo detesti, ha mai avuto la sensazione, andando in Israele, di visitare lo Stato-nazione dei vichinghi o la culla del popolo visigoto?
La bandiera con la stella di Davide, le stesse strisce e i colori del tallit, lo scialle della preghiera ebraica; la menorah, il candelabro a sette braccia come simbolo statale; l’Hatikvah, l’inno cantato in un idioma biblico quasi estinto come l’aramaico, ma che i padri fondatori vollero rigenerare per legare il passato e il futuro di uno stesso popolo; il sistema scolastico e le linee aeree nazionali che, uniche al mondo, santificano il giorno del riposo e della preghiera dello shabbat, restando a terra; le leggi che favoriscono l’immigrazione della Diaspora e quelle che incentivano la colonizzazione nei Territori palestinesi occupati. La stessa storia contemporanea di questo luogo e le motivazioni che spinsero Theodor Herzl a scegliere quel lembo di terra come rifugio e rigenerazione del suo popolo disperso e perseguitato.
Questi e molti altri indizi hanno sempre sollevato nel mondo il sospetto fondato che Israele fosse il Paese degli ebrei. Sembra che non basti. I nazional-religiosi di questa nazione, i “religious zionists” – un insieme di fascismo, sciovinismo e califfato, per prendere esempi esterni – hanno presentato una legge che prevede uno Stato solo per gli ebrei: identifica con fastidio delle “minoranze” ed elimina inutili definizioni come “democrazia” e “uguaglianza”.
Per chi è stato in Israele solo una volta e solo in vacanza e ha il diritto di non saperlo, occorre precisare che 67 anni fa Israele era stato creato come focolare del popolo ebraico. Ma la storia, la politica e le vicende belliche hanno fatto sì che un 20% in crescita della popolazione di quel Paese, sia araba: musulmani, cristiani e drusi. Come ha detto il presidente della repubblica Reuven Rivlin, contrario al progetto di legge, il termine minoranza “è sbagliato e fuorviante quando un quarto degli iscritti al primo anno di scuola è arabo”.
La questione di una definizione formale di Israele è complicata. In un primo tempo era stata sollevata dai negoziatori israeliani per porre un ulteriore ostacolo e guadagnare tempo nel processo di pace con i palestinesi. Abu Mazen era stato chiaro nella sua risposta: è un problema vostro, chiamatevi come volete, non chiedete a noi di ratificarlo. Ma la richiesta aveva anche delle ragioni. E’ innegabile che Israele non sia un Paese qualsiasi, che la sua ragion d’essere sia nella sopravvivenza di un popolo dopo duemila anni di persecuzioni e il massacro finale dell’Olocausto. La questione, difficile ma risolvibile, era nell’armonizzare questa esigenza storica e pratica con la realtà civile e ugualmente pratica dell’esistenza di quel 20% di non ebrei. Il compromesso è nell’equilibrio fra “Stato ebraico” e “democrazia”.
E’ stata la destra religiosa e nazionalista israeliana a riprendere la questione, trasformandola in una serie di proposte di legge che escludono lo strumento della democrazia come soluzione. Ai visitatori saltuari d’Israele giova spiegare che quella canea violenta è al governo del Paese. Il loro, per ora, è solo un progetto che ha spaccato l’esecutivo di coalizione, spingendo i centristi e i moderati a minacciare la crisi. Solo la settimana prossima Bibi Netanyahu, il premier, presenterà la sua versione di compromesso della legge che dovrà essere poi discussa e votata dalla Knesset.
Ma Bibi tentenna perché la sua filosofia è quella dorotea di non prendere decisioni coraggiose per stare al potere il più a lungo possibile; e perché la sua educazione familiare lo spinge ad essere ideologicamente vicino agli ultra-nazionalisti.
Il genio del male di questa vicenda è Naftali Bennet, ministro dell’Economia e leader del partito nel quale si riconosce la gran parte della destra razzista. Questa lobby di religiosi sionisti e coloni, rappresenta la minoranza d’Israele. Ma è come una mafia, un cancro che è stato capace di occupare gangli importanti del potere politico, amministrativo, perfino delle forze armate. Sono loro, con la loro violenza razzista, che stanno snaturando l’essenza democratica d’Israele.
Sono l’equivalente ebraico di Hamas, cercano la guerra di religione con i palestinesi, rifiutando qualsiasi trattativa politica. La quinta vittima israeliana dell’attentato alla sinagoga di Gerusalemme, la settimana scorsa, era un poliziotto: senza il suo intervento i terroristi palestinesi avrebbero ucciso molti altri rabbini. Era il sergente maggiore Zidan Nahad Seif, druso. Fosse stato per Naftali Bennet, non avrebbe mai indossato la divisa da poliziotto israeliano. E sono sicuro che nessun nazional-religioso ebreo rischierebbe la sua vita per salvare un arabo.
Qualsiasi legge, anche la più aperta, che definisca oggi l’essenza ebraica dello Stato d’Israele, sarebbe sbagliata nei tempi. Non c’è urgenza e farlo adesso significa sollevare il mondo islamico. L’errore strategico avrebbe gravi implicazioni regionali e militari. Ma il problema più urgente è la sopravvivenza di Israele. Qualche giorno fa Shabtai Shavit, ex capo del Mossad, ha scritto su questo un articolo illuminante. http://www.haaretz.com/opinion/.premium-1.628038#.VHTFFv2AqCE.email Alla sua protesta si sono aggiunti gli ebrei della Diaspora, le organizzazioni religiose ebraiche moderate e ortodosse, lo stesso presidente della repubblica. Ciononostante, sotto l’influsso maligno dei suoi estremisti interni, nelle prossime settimane Israele rischia di subire un colpo che nessun Paese arabo, milizia armata o gruppo terroristico è mai riuscito a infliggergli.
Allego l’intervista al ministro degli Esteri del Qatar, uscita la settimana scorsa sulle pagine del Sole-24 Ore.