Da ieri viviamo senza Nelson Mandela. Attacco retorico, lo ammetto. Non c’è assenza, non esiste perdita che sia insopportabile fino a impedirci di affrontare il giorno dopo esattamente come il giorno prima.
Quando il Mahatma Gandhi compì 70 anni, nel 1938, Albert Einstein scrisse che “un giorno avremmo faticato a credere che un uomo così, in carne e ossa, abbia camminato su questa Terra”. Era un grande complimento insieme a una constatazione realistica: prima si stenta a pensare che l’uomo straordinario abbia vissuto accanto a noi, poi non si pensa più e infine si passa ad altro. Normale.
Eppure – non so voi – a me Madiba manca. Non riesco a definire meglio il sentimento. Posso solo dire che negli ultimi anni, ogni volta che lo vedevo, ne scrivevo o ne leggevo, non riuscivo a frenare la commozione. Mi bastava vedere un film piuttosto noioso come Invictus, e mi prendeva il magone (quel giorno a Ellis Park io c’ero davvero). Lo vedevo attraversare il campo di calcio sulla macchina elettrica, prima del fischio d’inizio dei Mondiali, e mi scendevano le lacrime. Non prendetemi in giro. Anche adesso, mentre scrivo, sta succedendo.
Grazie al mio lavoro ho avuto la grande fortuna di conoscere diversi potenti – con qualcuno non la definirei fortuna – Ma il ricordo di nessuno provoca la stessa incontrollabile reazione. Non abbiamo fatto il liceo, il militare né vacanze assieme. Non ho mai potuto intervistarlo. L’ho solo visto tante volte da vicino e in una gli ho stretto la mano: Capetown, 1994. Niente di più. Tanto basta per desiderare di segarmela e appenderla al muro, dentro una cornice sotto vetro.
Dal punto di vista dell’ortodossia giornalistica non è corretto. Il nostro mestiere richiede un disacco critico verso tutto e tutti. Soprattutto con gli uomini di potere. L’elogio deve essere dosato perché potrebbe apparire servilismo. Ma non ci posso fare niente, scusate. So che anche il più idealista e innovatore degli uomini politici nasconde ombre, oltre la luce che lo illumina, e che il giudizio della storia è la sottrazione dei difetti alle qualità o viceversa. Vale per forza anche con Mandela.
Ma io non riesco a trovare i difetti. Per me Mandela è un simbolo perfetto. Mi conforta solo pensare che la mia adulazione è da Ong: senza fini di lucro. Per questo, alla fine, convivo agevolmente con la mia colpa. Conosco in Italia troppi colleghi professionalmente mediocri, diventati quello che sono dopo essersi scelti il potente utile da blandire. E anche diversi bravi, che se non avessero leccato non si sarebbero visti riconoscere i loro meriti.
Qualche tempo fa un giornalista, David James Smith, ha scritto la biografia “Young Mandela”, cioè la sua vita prima dell’arresto, dei 27 anni di carcere e dell’inizio del mito. Ha raccontato che picchiava la prima moglie Evelyn sposata nel 1944 (sempre smentito, anche da lei); che da giovane brillante e piacente avocato a Johannesburg, frequentava i locali e ci dava dentro con le ragazze. Più che una biografia, sembra una cronaca dal buco della serratura. Il mondo è pieno di Minzolini.
Sicuramente Mandela non era il migliore dei mariti né il migliore dei padri. Gli è sempre mancata la qualità del pater familias perché aveva fatto una scelta politica totale: i sacrifici e il tempo che questo richiedeva erano in contraddizione con la costruzione di un lessico familiare solido.
Ecco un difetto, dunque. Ma cosa c’entra questo con l’eredità pubblica e morale che ha lasciato ai sudafricani, agli africani e al mondo intero, e che tutti noi abbiamo incominciato a tradire molto prima che Mandela morisse, peggio di Pietro con il Cristo?
Forse ho capito la ragione del mio amore acritico per Nelson Mandela. Nella mia carriera ho seguito la perestroika gorbacioviana a Mosca e la fine del Muro, il ritiro sovietico dall’Afghanistan, la transizione sudafricana dall’apartheid alla democrazia, il processo di pace di Oslo fra israeliani e palestinesi, l’attacco dell’11 Settembre all’America, altre storie e guerre minori.
Di tutte, la vicenda del Sudafrica e di Mandela è quella che è arrivata a una conclusione ed è finita bene: è l’unica nella quale chi aveva ragione ha vinto. E – annotazione di non poco conto – ha vinto senza togliere di mezzo l’avversario.
E’ per questo che amo incondizionatamente Nelson Mandela. Sono come quel reduce di guerra che ha combattuto tante battaglie ma ne ha vinta una e solo quella gli è rimasta nel cuore. Il mio indomito reducismo mi farà sopportare perfino la santificazione pubblica, il grondare di retorica di questi giorni, il moltiplicarsi dell’ “io lo conoscevo bene”, del “quella volta che mi parlò”. L’imbalsamazione non so: Madiba come Lenin e Mao forse non lo sopporterò.