Come tutte le grandi ricorrenze, finalmente anche i 50 anni da Dallas stanno per essere archiviati. Dopo tanti documentari, articoli di giornale e tanto starnazzare, la memoria di John Fitzgerald Kennedy torna nelle mani degli storici che, diversamente dai giornalisti, sono degli scienziati: di solito studiano i testi, più dell’aria che tira.
Qui negli Stati Uniti, evidentemente, si è scritto e fatto molto più che in Italia. Da Barnes & Noble in Union Square, a New York, ieri ho contato nove nuovi libri sull’ex presidente e il suo universo. Sicuramente me ne è sfuggito qualcuno.
Ma da noi c’è stata una specie di corsa al linciaggio. Se un marziano fosse arrivato sulla Terra avendo avuto solo il tempo di memorizzare la nostra lingua, si sarebbe fatto l’idea che John Kennedy era interessato solo alle donne e alle pubbliche relazioni: una vita dedicata ad avere ogni notte una femmina diversa e ogni giorno una bella foto di se da mandare ai giornali. Elegantissimo ma sotto il vestito niente. John Kennedy non come iniziatore di una nuova frontiera americana ma di una nuova linea di abiti New England per Brooks Brothers e Ralph Lauren: tweed, camice di cotone e barche a vela.
Dovremmo chiederci come mai 50 anni dopo se ne parli ancora così tanto se era più o meno una versione americana di Lapo Elkan, sia pure più tragica. Ciononostante, giornali e giornalisti autorevoli hanno concluso che John Kennedy non è stato un grande presidente degli Stati Uniti. In effetti è difficile esserlo stato, andando al potere a 43 anni e governando solo per altri tre. Come si fa a stabilire la mediocrità di un uomo politico che il giorno dell’omicidio a Dallas aveva appena dispiegato le ali? E per quello che si sa, è innegabile che l’apertura alare di quelle idee fosse più che promettente.
I giornalisti – non gli storici – giudicano Kennedy come se avesse governato per due mandati e lo avesse fatto ai nostri giorni, non ai suoi, 50 anni fa: dando per scontato che lui dovesse prevedere allora quello che noi sappiamo oggi. E’ come se ci soffermassimo sugli schiavi delle piantagioni di Thomas Jefferson, e non sulla Dichiarazione d’indipendenza: non cogliendo che la straordinarietà di un uomo del 1789 era scrivere che “Tutti gli uomini sono stati creati uguali” e che tutti hanno lo stesso diritto “nel perseguimento della Felicità”.
Quando John Kennedy è morto, gli Stati Uniti avevano un arsenale nucleare da 35mila testate. Eppure, ci rivelano oggi, qualcuno ha venduto l’idea fallace e falsa di un presidente pacifista. Come si fa ad accusarlo d’ipocrisia senza tener conto che erano gli anni della Guerra fredda e l’Urss sarebbe arrivata ad avere 45mila bombe. Con Kennedy iniziò effettivamente un modo diverso di concepire la “confrontation” con i sovietici. Nonostante gli errori di ingenuità commessi da un presidente così giovane, a Berlino né a Cuba è scoppiata la terza guerra mondiale che sarebbe stata la prima termonucleare: quella definitiva.
Kennedy non può essere accusato di essere il solo responsabile del disastro del Vietnam. Così come non può essere ignorato il suo ruolo nelle grandi riforme sociali che hanno creato la Great Society: la fine legale della segregazione razziale, il Medicare, il Medicaid. Le ha approvate Lyndon Johnson ma non avrebbe potuto farlo se prima di lui ci fosse stato un presidente diverso da Kennedy.
Che leader sarebbe stato John Kennedy se avesse governato per altri cinque anni, fino al 1968, non lo saprà mai nessuno. Stabilire che è stato un mediocre presidente perché faceva soffrire Jacqueline e non ha risolto i problemi del mondo, è ingiusto. Il Mahatma Gandhi e Nelson Mandela, persone più grandi di lui, sono stati dei padri mediocri e non hanno salvato il mondo.
Abbiate dunque comprensione per John Fitzgerald Kennedy. In fondo non è colpa sua se Veltroni, Renzi e tutti i presunti liberal e cool italiani tentino ripetutamente d’imitarlo.