Sto finendo di leggere il libro appena uscito di David Sanger, il capo dell’ufficio di Washington del New York Times. “Confront and Conceal – Obama’s Secret Wars and Surprising Use of American Power” (Crown Publishers, New York, 2012) è un capolavoro del genere e una mappa necessaria per chi sia interessato alla politica estera americana.
C’è la Cina, la Corea del Nord, la Russia, ci sono i Brics e gli europei con la loro traballante moneta. Ma quando si parla di politica estera americana, s’intendono la diplomazia, le politiche, le alleanze, le operazioni militari o cibernetiche degli Stati Uniti in quell’ampio spazio che va dal Maghreb al Golfo Persico, fino al Pakistan e alle sue frontiere con l’India. Il “Medio Oriente allargato”, come tentò di definire un membro della prima amministrazione Bush quell’insieme di attentati, guerre, fondamentalismi nei quali gli Stati Uniti giocano il loro ruolo mondiale e la loro sicurezza. E’ sempre stato così ma lo è molto di più dall’11 Settembre.
“Confront and Conceal”, affronta e occulta, è il dettagliato resoconto del passaggio di consegne dalla seconda amministrazione Bush a quella democratica di Barack Obama, dei quattro anni della sua presidenza e in particolare degli ultimi due: il racconto di Sanger finisce con gli avvenimenti di pochi mesi fa. Si racconta di come è emersa l’impossibilità di vincere in Afghanistan: il passaggio dalla presunzione di costruire un Paese perfetto, all’opzione “Afghanistan good enough”, cioè il meno peggio possibile.
Ci sono pagine interessatissime e terrorizzanti sulla fragilità del Pakistan e il rischio che il suo arsenale nucleare possa finire nelle mani dell’estremismo islamico. C’è il resoconto della prima “cyberwar” della storia che Stati Uniti e Israele hanno condotto insieme per riempire di virus il programma nucleare iraniano, rallentandolo notevolmente; il tentativo americano di convincere gli israeliani che un conflitto “smart” sia l’opzione di gran lunga migliore del bombardamento aereo sui siti nucleari iraniani. E ci sono le Primavere arabe: il rapido adattamento di Barack Obama al cambiamento di poteri bloccati da decenni e l’opzione delle fratellanze islamiche. Emergono un presidente degli Stati Uniti pragmatico e duttile, non necessariamente adeguato al compito ma radicalmente diverso dall’ideologia fallimentare “con noi o conto di noi”, di George Bush; e un Grande Medio Oriente che sembra il crescendo di uno spaventoso conflitto globale.
Ogni capitolo del libro di Sanger merita una
riflessione. Ma quel che mi ha colpito di più è la relazione fra stampa e
potere che emerge in queste pagine. E’ un rapporto nitido, rispettoso degli
interessi di ciascuno. L’accesso della stampa alle fonti d’informazione è quasi
totale: i giornalisti vengono informati di ciò che sta accadendo. In cambio, su
richiesta esplicita e straordinaria del potere, si autocensurano a tempo
limitato fino a che quella notizia a cui hanno avuto accesso, se diffusa mette
in pericolo gli interessi dello Stato e le vite di coloro che lo servono.
Ci sono due Paesi nei quali, credo, la
libertà di stampa raggiunge i livelli più alti possibili: gli Stati Uniti e
Israele. In questi due Paesi l’essere informati in cambio di un’autocensura a
tempo per ragioni supreme, ammesse come tali dal potere e dalla stampa, è una
regola. Non sono fra i sostenitori del giornalismo sopra ogni cosa: ho sempre
pensato di fare solo un lavoro, per quanto importante e a volte delicato, non
di essere il sacerdote di una fede, per quanto civile e democratica. Prima del
mio lavoro vengono le vite degli individui e la sicurezza del mio Paese.
Tornando ai miei esempi, non parlo dei
comportamenti dei due governi, americano e israeliano, a volte esecrabili; ma
dell’atteggiamento della stampa in momenti precisi di quei due Paesi. La regola
non sempre funziona. Judith Miller diede l’autorevolezza del New York Times
alla tragica bugia delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein e
contribuì a svelare la copertura di un’agente segreta americana il cui marito
ambasciatore era inviso all’amministrazione Bush.
Ma Miller è stata licenziata e si è fatta 11
settimane di galera. Il nostro Renato Farina, nome in codice Betulla, no.
Farina faceva solo il delatore e costruiva dossier falsi sui giornalisti per i
nostri servizi interni (chissà cosa se ne facevano di quelle bufale). A partire
dal suo volto paffuto, Farina manca sotto ogni aspetto della gravitas di chi,
come Miller, ha istigato un Paese a una guerra sbagliata. La galera forse no,
ma essere diventato per questo deputato (Pdl) della Repubblica è piuttosto
esagerato. Dice molto di quale sia
invece da noi il rapporto fra il potere e la stampa.