Cosa ne farà Bibi Netanyahu di 94 seggi parlamentari su 120, una maggioranza politica mai vista in Israele? Se ne servirà per imporre finalmente una pace con i palestinesi a una società civile e politica sempre titubante su questo tema? O per serrare le fila nell’imminenza di un’ennesima battaglia: il bombardamento dei siti nucleari iraniani?
Sul proscenio politico israeliano, sempre dinamico, dai brevi successi e inaspettate cadute, Bibi sta vivendo un’età dell’oro. La settimana scorsa Time gli ha concesso la copertina: “Re Bibi”. Dalla descrizione che fa del personaggio in sei fitte pagine di intervista e di racconto, il settimanale americano propende più per l’uso bellico di quella larga maggioranza che per sfruttare un’opportunità di pace. E’ la storia politica di Netanyahu che lo dice. E anche la sua educazione, il suo imprinting culturale. Cioè suo padre Benzion, un grande storico del medioevo ebraico, morto il mese scorso a 103 anni. “Benzion”, scrive Time, “credeva che la storia degli ebrei fosse una storia di olocausti; e che i nemici degli ebrei, come gli arabi, saranno felici solo quando non esisterà più il popolo ebraico”. Esattamente quello che in parole e opere pratica Bibi.
In passato ero stato molto critico con Ariel Sharon. Riguardo alla sua brutalità con gli arabi, lo definivo un Milosevic israeliano. Ad un certo punto dovetti ricredermi e fare ammenda per non aver capito le complessità che ogni leader politico nasconde. Pur continuando a non avere alcuna fiducia verso i palestinesi, Sharon chiuse gli insediamenti di Gaza e alcuni in Cisgiordania: se non lo avesse fermato l’ictus, ne avrebbe smantellati molti altri. Alla fine della sua carriera politica aveva capito che Israele era più importante di un Grande Israele; che il sogno doveva fare i conti con la realtà.
Sharon era un sionista pragmatico, Bibi è un ideologo. Per questo non credo che il secondo seguirà l’esempio del primo e userà l’incredibile maggioranza non per una pace ma per l’incredibile follia di un attacco all’Iran. Ma potrei commettere un errore ancora una volta e in questo caso sarei il primo a compiacermi. Perfino prima di “Informazione corretta”.
C’è un elemento che mi da’ speranza. Quello che la classe politica israeliana, i suoi negoziatori e la maggioranza dei loro concittadini rivendicano come “l’essenza ebraica” di Israele. So che l’idea di uno Stato etnico nel XXI secolo è un’antitesi della democrazia e che molti lo criticano. Io invece non riesco a scandalizzarmi ma a ritenerlo una via d’uscita, forse l’ultima per veder finalmente nascere uno Stato palestinese. Non possiamo ignorare l’unicità della storia ebraica e di quella israeliana: gli ebrei europei per scampare all’antisemitismo non sono emigrati in Argentina o in Uganda ma in Palestina. Nel 1947 anche il piano di spartizione dell’Onu prevedeva la divisione del territorio in uno “Stato ebraico” e uno “Stato arabo”.
Quando pretendono che i palestinesi riconoscano preliminarmente l’ ”essenza ebraica” d’Israele, senza dire cosa accadrebbe in questo caso al 20% dei cittadini di Israele che sono arabi, gli israeliani cercano solo di guadagnare tempo nel negoziato di pace. Ma quella “essenza” esiste, è il frutto di un cammino storico: in parte eroico, in parte brutale ma ormai storico. Sottintende anche l’aspetto demografico della regione che spinse Ariel Sharon a lasciare Gaza e a pianificare il ritiro dalla Cisgiordania. Forse perfino Bibi sta constatando che Grande Israele significa Stato binazionale nel quale i cittadini arabi finirebbero col diventare maggioranza sugli ebrei. Sarebbe la fine di Israele: per questo molti arabi preferiscono la soluzione di “uno Stato per due popoli” a quella dei due Stati.
Dopo tanti anni al seguito di questa tragedia, da individuo e da giornalista, ho smesso di credere alle soluzioni perfette. Se lo Stato degli ebrei serve a creare, accanto e in pace, quello dei palestinesi, voto a favore dello Stato etnico.