A molti sembrerà una perdita di tempo e di risorse che in una stagione così lugubre per il capitalismo occidentale, la sua versione militare, la Nato, si riunisca a Chicago nel rito annuale di un summit. E’ come se i capi di Stato e di governo dei 28 membri dell’Alleanza atlantica fossero fuori tema mentre la Grecia fallisce, le banche Usa sbagliano investimenti, i giovani sono senza lavoro e il vero pericolo dell’Europa non sono i comunisti ma le agenzie di rating americane.
Anche se per denaro speso, potenza di fuoco, arsenali nucleari, numero di associati e di Paesi “amici”, la Nato è la più grande e attiva alleanza militare del mondo, è legittimo chiedersi a cosa serva. La sua missione originale si è conclusa 23 anni fa con la fine del blocco sovietico. Nel 2014 uscirà dall’Afghanistan, apparentemente il suo primo e ultimo campo di battaglia nella definizione classica del termine.
L’Afghanistan dal quale se ne vogliono andare tutti, è solo la questione più urgente ma non la più importante per il futuro dell’Alleanza. Il problema vero è dare a se stessi un senso e un ruolo. Nel suo primo mezzo secolo di vita la Nato non ha dovuto faticare a darseli: li definivano automaticamente l’Urss e il Patto di Varsavia. Terrorizzata di essere vittima della sua stessa vittoria, di diventare cioè obsoleta come il fronte comunista dissoltosi, nel ventennio successivo l’Alleanza si è data una nuova vocazione: è uscita dal suo terreno naturale europeo, ha cessato di fare solo esercitazioni passando invece a missioni militari vere: Bosnia e Herzegovina, Kosovo, Iraq (solo addestramento agli iracheni), missioni navali antiterrorismo, Afghanistan, Libia. Sui risultati di alcune di queste attività si può discutere ma l’Isaf afghana ha saputo mettere insieme in varia misura 28 alleati, 22 partner extra Alleanza e le Nazioni Unite. Vent’anni di operazioni vere, sul campo, a volte combattendo, sono state fondamentali per cementare comportamenti e solidarietà di un’alleanza militare.
L’uscita o la fuga dall’Afghanistan del 2014 apre un nuovo capitolo e rafforza la domanda fondamentale: che fare, adesso? La nuova idea della “Smart Defence” è solo un palliativo: non è una nuova autodefinizione ma solo un modo per risparmiare in tempi di crisi economica. “Gentlemen, abbiamo finito i soldi. Dunque dobbiamo incominciare a pensare”, disse una volta ai suoi Winston Churchill. Potremmo chiamarla “Smart Money”.
Solo cinque dei 28 Paesi alleati raggiungono il 2% del Pil in spese militari fissato dalla Nato. Curioso che fino all’anno scorso uno di questi fosse la Grecia, spinta da francesi e tedeschi a comprare i loro sottomarini e solo dopo a fare i tagli. Gli Stati Uniti continuano a coprire il 75% del bilancio Nato e vorrebbero che i soci europei incominciassero a diventare “fornitori” di sicurezza e non solo “consumatori”. Ma anche così nel 2011 i Paesi dell’Unione europea hanno speso per la difesa 180 miliardi d euro. Impensabile oggi investirne altri.
Fra gli alleati c’è chi propone di tornare alle origini, nel vecchio continente, cercando nella Russia di Vladimir Putin i segni del vecchio e rassicurante nemico sovietico. Sarebbe un suicidio, oltre che una stupidata. La Nato non può tornare nella sua originale tana europea dove tutto incominciò, senza dover constatare la sua inutilità.
Torniamo di nuovo alla domanda originale: serve ancora l’Alleanza atlantica? Forse sì, se guardiamo al mondo di oggi, sempre più multipolare: caoticamente multipolare, non armoniosamente. La Russia di Putin non è l’Urss ma negli ultimi 10 anni ha aumentato del 368 % le sue spese militari. In campagna elettorale Vladimir Vladimirovich ha promesso di incrementarle di un altro 50 entro l’anno prossimo. La Cina ha aumentato il bilancio per la difesa del 335%, l’India del 183, l’Iran sogna la bomba e Israele di bombardarla. Non per essere diffidenti. Ma conviene privarci della nostra cara vecchia Nato? E’ un po’ obsoleta, è troppo nostalgica del suo passato, è sicuramente senza soldi. Ma con l’aria che tira attorno a noi, è pur sempre un’alleanza.