“La crisi fiscale è acuta perché gran parte dell’economia della Cisgiordania ancora dipende dal settore pubblico e dai progetti infrastrutturali, entrambi pesantemente finanziati dall’aiuto internazionale. E’ un segno allarmante riguardo alla stabilità dell’economia palestinese”. Il tono, da ufficio studi della Banca Mondiale, mostra una misurata inquietudine.
Questa lodevole preoccupazione per i destini della Palestina è in realtà la preoccupazione del coccodrillo per la sua vittima. E’ il documento che il ministero degli Esteri israeliano ha inviato a Bruxelles, all’ultimo incontro delle organizzazioni internazionali e dei Paesi donatori dell’Autorità palestinese. Avigdor Lieberman, il punto più basso nel governo israeliano mai raggiunto nella storia, si lagna per una situazione insostenibile. Caspita – dice in sostanza il ministro degli Esteri – In Palestina non si è sviluppata un’impresa privata florida e sana. Nell’epoca della globalizzazione c’è solo economia pubblica, parassitaria perché dipendente dall’aiuto internazionale, e piuttosto corrotta.
Come se di questa vicenda Israele fosse il Lussemburgo: un osservatore lontano. Come fa un’entità a malapena geografica, a sviluppare un’economia privata quando non ha frontiere né controlla i suoi dazi ma vive nell’incertezza esistenziale? Come fa un imprenditore palestinese a sapere se e quando esportare la sua produzione, se gli israeliani chiudono e aprono arbitrariamente i loro posti di blocco; controllano, manomettono e spesso congelano per giorni e giorni qualsiasi cosa sia palestinese?
Israele se la prende con i donatori internazionali che a causa della crisi globale hanno ridotto l’aiuto. Ma finge d’ignorare di essere il solo occupante al mondo che in 45 anni di occupazione non ha mai speso uno shekel per gli occupanti. Se la prende con l’incapacità palestinese di fare economia e intanto ne sfrutta le risorse. Le Nazioni Unite hanno appena accusato i coloni di aver sottratto ai palestinesi altre 56 fonti idriche, molte delle quali su terreni privati arabi. Ma, come è noto, l’Onu è solo un covo di antisemiti: anche se in Cisgiordania i palestinesi hanno a disposizione una percentuale procapite di acqua potabile fra le più basse del mondo, mentre le colonie hanno le piscine.
Il ministero degli Esteri israeliano ha un obiettivo che nemmeno nasconde. Anzi, dichiara: “Questo dimostra la necessità di ulteriori riforme perché l’Autorità palestinese raggiunga gli standard di uno Stato funzionante”. Un’economia così, non può sostenere uno Stato indipendente. Dunque niente Palestina indipendente. Possiamo chiamare tutto questo comportamento da facce di bronzo senza essere accusati come l’Onu di antisemitismo? Riguardo alle fonti, il coordinatore di una colonia spiega così il loro furto: “Gli ebre amano coltivare le cose e renderle belle. I palestinesi interpretano questo come una dichiarazione di proprietà della terra ed è per questo che bruciano e distruggono le cose”. Non è anche questo antisemitismo?
Se il problema fosse la corruzione, molti Paesi latino americani e probabilmente neanche l’Italia repubblicana avrebbero diritto di esistere. Se il problema è la sicurezza, le centinaia di razzi che la Jihad islamica ha da poco lanciato su Israele, il terrorismo che si riorganizza nel Sinai o la tragedia di Tolosa, non è giusto scaricare tutto questo sull’Autorità palestinese in Cisgordania. E’ un’altra storia. Quelli di Cisgiordania sono i palestinesi del compromesso; quelli che in tutto il mondo, tranne che in Israele, sono riconosciuti come i migliori partner possibili per un accordo di pace. Invece vengono volutamente trattati come quelli di Hamas a Gaza. Anzi: nemici anche più pericolosi perché la loro arma disarmante è il compromesso e non il terrorismo.