di Ugo Tramballi
Una riforma in sé non significa nulla se non viene misurata col tempo e il luogo in cui viene proclamata. Le donne voteranno: non ora, probabilmente fra quattro anni. E voteranno come gli uomini solo in quella percentuale di amministrazioni locali (non tutte) dove è ammessa la consultazione popolare. Le donne entreranno anche nel Consiglio consultivo nazionale, la Shura, una parvenza di Parlamento scelto dal re, non da un confronto elettorale.
Difficile definirla riforma. Se non che il luogo è l’Arabia Saudita, il Paese più conservatore del mondo, e il tempo è adesso, un’epoca quantomeno dinamica per il Medio Oriente. La cosa dunque si fa interessante. Ma sarebbe un errore credere che re Abdullah l’abbia annunciata adesso per buttare qualcosa in pasto alla tigre della Primavera araba e soddisfarne la fame di democrazia. Il problema della monarchia saudita non sono le migliaia giovani, ragazzi e ragazze, che hanno riempito le nuovissime università costruite da Abdullah: sono gli anziani, con alcuni giovani, difensori del dogma ultra-religioso wahabita; le tribù ripagate con poteri e privilegi per l’alleanza che garantiscono agli al-Saud da prima che conquistassero il Paese; il tradizionalismo di una società religiosa, economicamente parassitaria e abbondantemente foraggiata dalle casse dello Stato.
In un procedimento inverso dell’arco politico arabo, piazza Tahrir sono loro, non i riformisti. Che non ci sono, quelli che c’erano sono in carcere. Il riformista possibile (sempre misurato col tempo e il luogo) è il re, l’ottantasettenne “Custode delle due Sante Moschee”, che nei nove anni in cui è stato reggente del fratello malato e da quando, nel 2005, è monarca ha promosso una lenta modernizzazione del Paese. Tanto graduale da apparire ferma all’occhio dell’occidentale ma corposa per quello della maggioranza dei sauditi.
Il miglioramento della condizione femminile, sociale e politica, era previsto da tempo. Era già nell’agenda del re che domenica ha annunciato il diritto di voto quasi a futura memoria, dando una spallata di una certa consistenza alla società che governa. Oltre che dalle donne, il re è spinto da una considerazione economica: non esiste Paese al mondo, nemmeno il più ricco di petrolio, che può permettersi di tenere il 50% della sua popolazione fuori dal sistema produttivo.
Nella pletorica famiglia reale -7mila principi con mogli e figli – ci sono modernizzatori più radicali del monarca e conservatori che sostengono l’immutabilità del Paese. Il pericolo per la stabilità del primo fornitore e del più grande proprietario di riserve di petrolio al mondo, non è tanto il contagio della Primavera araba quanto l’età del re e un processo di successione non più evidente come un tempo. Una nuova generazione di principi (pur sempre 50-sessantenni) preme alle porte e nessuno ha contato quanti siano i riformisti, quanti i conservatori.