Pochi giorni prima che iniziasse la battaglia alle Nazioni Unite sulla Palestina, le quatto agenzie d’intelligence israeliane avevano consegnato al governo un documento comune. I servizi segreti militari e del ministero degli Esteri, lo Shin Bet che si occupa della sicurezza interna e il Mossad di quella esterna, esortavano con urgenza a tornare al negoziato con i palestinesi.
Lo scontro con la Turchia, un alleato essenziale, era ormai una nuova e problematica realtà strategica. Al Cairo l’assalto all’ambasciata israeliana era stato il culmine della crisi con un altro partner decisivo. E poi la Primavera araba verso la quale il governo non riesce a uscire dal suo bunker di diffidenza. I servizi segreti ricordavano che oltre alle minacce, in quella rivolta esistono grandi opportunità da esplorare.
Senza una trattativa aperta né la volontà di aprirla, il no alla richiesta palestinese di essere ammessi all’Onu come Stato sovrano, avrebbe dunque isolato ancora di più Israele e messo in difficoltà i suoi amici in Occidente. “I segni sono sul terreno ora”, ricordava ai colleghi di Governo Ehud Barak che come ministro della Difesa è il vertice dell’apparato della sicurezza. “Poi dovremo chiedere a noi stessi se non avremmo dovuto comportarci diversamente”. Anche re Abdullah di Giordania ha aggiunto qualcosa di simile: “Vogliono far parte del vicinato o preferiscono essere Fortezza Israele?”. Eppure Bibi, per non perdere i voti dell’estrema destra che regge il suo governo, non fa nulla. Il si al Quartetto sull’incondizionata ripresa dei negoziati, era solo una furbizia tattica: sapeva che i palestinesi avrebbero detto di no.
L’acritico sostegno degli americani alle posizioni di Bibi Netanyahu, è di conforto per Israele all’Onu ma non alla sua condizione solitaria nella regione. Nemmeno l’America è messa così bene laggiù. Nell’acceso dibattito alle Nazioni Unite Turki al-Faisal era stato molto chiaro con gli americani: se porrete il veto sulla Palestina al Consiglio di sicurezza, perderete un alleato. “L’influenza americana declinerà ulteriormente, la sicurezza israeliana verrà minata e l’Iran diventerà più forte, aumentando i pericolo di un’altra guerra nella regione”. Non male come prospettiva.
Turki al-Faisal non è solo un principe saudita ascoltato dal suo re. E’ stato capo dell’Intelligence e ambasciatore a Washington. Ora è il probabile successore del fratello Saud al-Faisal, ministro degli Esteri da 36 anni. Verso l’America, aveva aggiunto il principe Turki, “i leader sauditi potrebbero essere forzati da pressioni interne e internazionali ad adottare una politica estera molto più indipendente e assertiva. Come col nostro recente appoggio alla monarchia del Bahrain, l’Arabia Saudita potrebbe opporsi al governo del premier Nuri al-Maliki in Iraq, rifiutarsi di aprire un’ambasciata a Bagdad nonostante le pressioni americane. Potrebbe prendere le distanze da Washington anche in Afghanistan e Yemen”. Nel 2002 i sauditi avevano offerto a Israele la pace piena con tutto il mondo arabo. Non hanno mai avuto una risposta.
Ad essere isolati, dunque, presto saranno in due: Israele e Stati Uniti. Ma Bibi Netanyahu è certo di avere tempo. Una convinzione antica in Israele: anche David Ben Gurion negli anni ’50 credeva che il tempo fosse dalla sua parte. Nella società israeliana c’è la convinzione che il conflitto con i palestinesi sia senza soluzione ma si possa facilmente “amministrare”: c’è un muro e dall’altra parte cresce l’economia. La Banca Mondiale dice che la crescita in Cisgiordania è azzoppata dall’occupazione ed esiste solo con l’aiuto internazionale. Ma agli israeliani va bene anche così. Perché il tempo è dalla loro parte come nel 1950, anche contando tutte le guerre combattute da allora. La realtà la raccontava qualche tempo fa su Ha’aretz Yoel Marcus che certo non è un pacifista di sinistra: “Abbiamo cinque sottomarini e alcuni degli aerei più sofisticati del mondo. Secondo fonti straniere abbiamo anche una capacità nucleare (ce l’hanno eccome, n.d.r.). Ma, ancora, un arabo armato di coltello può devastare un quartiere di Tel Aviv. Nessuno lo ha mandato, è venuto da solo. Abbiamo esercito e servizi segreti fa i migliori del mondo e, ancora, i terroristi possono organizzare un agguato sulla strada per Eilat e trovarci impreparati”. E’ così dai tempi di Ben Gurion e invece di essere più sicura, Fortezza Israele è sempre più isolata.