Senza dover necessariamente citare von Clausewitz, è evidente che le guerre siano combattute per ragioni politiche. E che combatterle non sia solo vincere battaglie ma anche trasformare i successi militari in un risultato politico. Nel primo caso, le vittorie militari, Israele ha grande competenza; nel secondo, la soluzione politica, no.
Nel 1956 conquistò il Sinai ma il presidente americano Dwight Eisenhower costrinse Israele a un’umiliante ritirata. La guerra dei Sei giorni del ’67 fu una vittoria spettacolare. Ma 57 anni dopo, l’occupazione dei territori palestinesi continua a dilaniare il paese, costringendolo ad un conflitto permanente. La tragedia del 7 ottobre organizzata da Hamas non è un episodio nato dal nulla: è il prodotto perverso e orribile di decenni di occupazione israeliana.
La guerra del 1973 portò qualche anno dopo alla pace con l’Egitto ma il merito fu dell’egiziano Anwar Sadat, non di Golda Meir né di Menahem Begin: la prima aveva rifiutato una trattativa sulla restituzione del Sinai, causando la guerra; il secondo non avrebbe riconsegnato la penisola agli egiziani senza le pressioni prima di Henry Kissinger e poi di Jimmy Carter.
Nessuna delle numerose guerre in Libano ha garantito la pace alle frontiere settentrionali: piuttosto, hanno prodotto nuovi e pericolosi nemici come Hezbollah. Né le molte operazioni su Gaza hanno offerto vie d’uscita politiche, limitandosi a congelare uno status quo pericoloso. Anche in questo teatro di guerra Israele ha gravi responsabilità riguardo all’esistenza di Hamas.
L’ultima guerra, questa in corso, sta isolando lo stato ebraico dal mondo come mai era accaduto: la potenza e la tecnologia della sua inarrestabile capacità di fuoco si stanno lasciando alle spalle un disastro materiale e politico dal quale sarà difficile uscire.
Tra poco Israele celebrerà i 76 anni della sua indipendenza ma, ancora, vive il dilemma se attaccare o no una tendopoli di oltre un milione di morti di fame, a Rafah; se raggiungere con Hamas un momentaneo compromesso su ostaggi e prigionieri; se accettare una tregua e per quanto. A parte le migliaia di vite in gioco, nel grande affresco di un conflitto quasi secolare senza una soluzione, appaiono come questioni contingenti, palliativi momentanei: prolungano l’instabilità, non la risolvono.
E’ ormai incalcolabile il numero dei campus universitari mobilitati contro Israele. L’antisemitismo non perde mai l’occasione di manifestarsi: lo sta facendo anche questa volta. Ma ridurre una protesta giovanile così globale a una questione di razzismo, come fanno Israele e molte comunità ebraiche occidentali, è falso e ingiusto. Anche questa è una forma di militarizzazione di un problema.
L’antisemitismo, invece, è una cosa seria: usarlo in ogni occasione politicamente utile è come banalizzarne la gravità. Sarebbe più utile chiedersi perché stia accadendo una protesta così vasta contro Israele.
Ancora una volta, sabato sera a Tel Aviv molti israeliani sono scesi in piazza a protestare. I parenti degli ostaggi di Hamas si sono uniti a coloro che già prima della guerra volevano impedire una serie di leggi che avrebbero ridotto la democrazia del paese, volute dal governo di estrema destra guidato da Benjamin Netanyahu. Il collante erano la protesta contro il primo ministro, la richiesta delle sue dimissioni e nuove elezioni.
Ma la manifestazione si sarebbe spaccata se fosse stata invitata a protestare contro la guerra a Gaza o chiamata a marciare per la soluzione politica del conflitto: lo stato palestinese che invocano l’amministrazione Biden, cinesi, russi, europei, Sud globale, arabi buoni e cattivi. Tutto il mondo, tranne Israele.