Dopo le ore di paura nel cielo d’Israele, tutto è tornato come prima dell’attacco iraniano: hanno riaperto le scuole, le università, gli stadi. Ed è ripresa la guerra a Gaza. In realtà gli israeliani non l’avevano mai sospesa: la tauromachia israelo-iraniana le aveva solo rubato per 48 ore la scena e l’attenzione mediatica.
Bibi Netanyahu deve solo decidere se ignorare le dure raccomandazioni americane e il gesto di collaborazione offerto da molti paesi arabi; e decidere se rispondere alla provocazione iraniana, risposta della provocazione israeliana della settimana scorsa (missili sull’ambasciata a Damasco). “Israele non può permettere che un attacco di quelle proporzioni non abbia qualche tipo di risposta, che sia grande o piccola”, ha detto un portavoce di Netanyahu alla rete americana Nbc. E’ una specie d’infantilismo machista dal quale lui e il suo governo non sanno uscire.
Eppure Israele rivendica una “grande vittoria”: quella di avere abbattuto quasi il 100% dei droni e missili arrivati sui suoi cieli. Finge d’ignorare che se l’Iran avesse voluto fare sul serio, avrebbe anche ordinato Hezbollah libanese di usare i suoi arsenali. Pure a Teheran festeggiano la loro “grande vittoria”: quella di aver mandato i droni su Israele. Ma il governo non spiega ai suoi sudditi che era un attacco largamente preannunciato ai “Satana americani e sionisti”: perché l’Iran non avrebbe le forze di affrontare una guerra contro gli uni e gli altri.
In ogni caso sia gli israeliani che gli iraniani hanno motivo di rivendicare una vittoria. Teheran un successo di visibilità: ora gli avversari sanno che in caso di necessità, cioè di attacco vero, l’Iran può raggiungerli ovunque. Questo motiverà le schiere delle milizie sciite sue alleate in Libano, Yemen, Siria e Iraq.
La vittoria israeliana nella prova generale di un attacco vero fra la notte di sabato e domenica, è che la sua deterrenza – cioè la sua superiorità strategica – resta intatta. Gli iraniani lo sanno ed è per questo che hanno solo compiuto un assalto ai limiti del virtuale.
Ma il successo più importante che Netanyahu rifiuta testardamente di ammettere, è un altro: Israele non è isolato in mezzo a un mondo di nemici. E’ la versione della realtà che il paese si è sempre dato per giustificare l’uso della forza militare di fronte ad ogni minaccia: reale o apparente che fosse.
Sono almeno 50 anni che Israele ha dalla sua parte la superpotenza americana: la sua diplomazia, il suo aiuto economico e i suoi arsenali ai quali può accedere come a nessun alleato Nato è consentito. Ma ciò che è accaduto l’altra notte dimostra che anche in Medio Oriente Israele ha molti sodali. Chi militarmente, chi attraverso l’intelligence, Giordania, Egitto, regni ed emirati del Golfo hanno creato una specie di cordone politico attorno a Israele.
Non accadrebbe di nuovo se Netanyahu decidesse di rispondere militarmente all’Iran. Israele si troverebbe di nuovo solo come ai vecchi tempi. Joe Biden ha promesso che neanche gli americani darebbero il loro appoggio politico e logistico.
“Costruiremo una coalizione regionale contro la minaccia dell’Iran ed esigeremo un prezzo nel modo e nel momento che ci conviene”, aveva detto Benny Gantz, leader dell’opposizione, ora nel litigioso gabinetto di guerra israeliano. La parte rilevante della sua dichiarazione, è la prima. Israele non è solo, ha l’opportunità di essere un paese guida della regione. Basta che lo voglia. Insieme, i paesi del Golfo e Israele hanno solo il 14% della popolazione del Medio Oriente; ma il 60% del suo Pil, il 73 della sua esportazione di beni, il 75 dei suoi investimenti dall’estero.
Fino a che Netanyahu e il suo governo di estremisti non decideranno d’ignorare uomini più saggi di loro, i vincitori più importanti di queste giornate pericolose sono Joe Biden e Benny Gantz. Il primo per aver convinto Iran e (per ora) Israele ad affrontare la crisi con cautela; il secondo per avere offerto un futuro concreto ai suoi concittadini, fisicamente o mentalmente in guerra da che esiste lo stato d’Israele.