Che la nuova tattica siano assalti mirati e rapidi, notte dopo note, o che sia iniziata la conquista di Gaza promessa dopo l’aggressione di Hamas, Israele ha pericolosamente alzato il livello dello scontro. Per una coincidenza forse non del tutto casuale, l’assalto d’Israele si è fatto più duro mentre al Consiglio di Sicurezza Onu il mondo chiedeva il contrario.
Sradicare Hamas da Gaza è sempre stato l’obbiettivo annunciato da Israele. Se lo facesse, semplificherebbe i piani della diplomazia internazionale di sostituire il movimento islamico con la moderata Autorità palestinese di Abu Mazen. Posto sia realistico riuscirci nella striscia, Hamas è sempre più attivo anche nelle città della Cisgiordania occupata.
Prima o poi Israele si dovrà fermare. La mobilitazione di 300mila riservisti è costosa. Supponendo che la guerra durerà fra i tre e i sei mesi, Standard&Poor’s ha abbassato da positivo a negativo il credito d’Israele. Valutando 60 giorni di guerra, la Banca centrale pensa che il Pil calerà di 2/3 punti. Secondo Meitav Interest House, alla Borsa di Tel Aviv, l’economia nazionale perderà 17,2 miliardi di dollari.
Per Israele l’intensificarsi dell’attacco è una specie di lotta contro il tempo: fra la sua presunzione di chiudere radicalmente con Hamas quale ne siano gli effetti collaterali; e la sempre più evidente pressione internazionale perché fermi l’offensiva; accetti una tregua sufficientemente lunga per negoziare e realizzare la liberazione degli ostaggi; riconosca la necessità di un’azione politica per un cessate il fuoco duraturo.
Alla fine qual’è la differenza morale fra uccidere una donna e i suoi figli con un fucile mitragliatore di Hamas o con una bomba d’aereo israeliano, aveva chiesto sulla Cnn a Christiane Amanpour, la regina Rania di Giordania. E’ quello che si chiede una crescente parte del mondo. Anche negli Stati Uniti, in Europa, nei paesi arabi in pace con Israele.
La risoluzione dell’Assemblea Onu a favore di “una immediata, durevole e sostenibile tregua umanitaria che porti a una cessazione delle ostilità” ha avuto 120 voti a favore, 14 contrari e 45 astenuti. E’ passata ma non impegna nessuno. Non ha valore politico immediato ma ne ha uno morale, destinato a diventare anche politico, molto presto.
Israele è sempre più isolato: non se ne è accorto o non gliene importa. Nel suo intervento all’Asemblea Generale l’ambasciatrice americana Linda Thomas-Greenfield ha ribadito il voto contrario alla mozione presentata dai paesi arabi. Ma anche dedicato una buona parte del suo discorso ai palestinesi, a quello che stanno soffrendo a Gaza, alla necessità di una tregua.
Nell’affermare una potenza militare che dal 1948 garantisce sicurezza a tempo determinato (4 guerre arabo-israeliane, due in Libano, due Intifade, attentati terroristici), Israele rischia di trascinare in una guerra regionale i suoi migliori amici. Soprattutto gli Usa, l’alleato indispensabile.
Bibi Netanyahu ne ha metodicamente minato l’accordo sul nucleare iraniano; ne ha ignorato gli appelli a riconoscere i diritti palestinesi; con quel che sta accadendo a Gaza rende impossibile ai paesi arabi che lo hanno firmato, onorare gli accordi di Abramo voluti dagli Usa. Infine Bibi ha costituito un governo nazional-religioso che minaccia gli interessi americani nella regione. A fatica Hamas, Hezbollah e Iran riescono a fare più danni all’America.
Il comportamento militare a Gaza sarà determinante per contenere o allargare il conflitto al resto del Medio Oriente. E’ forse questo che ha spinto gli israeliani a rinviare così a lungo gli assalti terrestri. Secondo il New York Times l’amministrazione Biden avrebbe anche bloccato un attacco preventivo che Israele voleva lanciare contro l’Iran. Un rappresentante del Pentagono parteciperebbe a molti degli incontri del gabinetto di guerra, al ministero della Difesa di Tel Aviv.
Senza provocazioni e se Israele accettasse qualche forma di tregua (l’ipotesi al momento è difficile) nessuno nella regione ha interesse ad allargare il conflitto. Nel 1914 neanche re e imperatori europei volevano perdere il trono e far morire in trincea 20 milioni di uomini. Il Kaiser, lo Zar e il re inglese erano anche cugini, nipoti della regina Vittoria. Poi ci fu l’attentato di Sarajevo.