(Kal’s cartoon, The Economist)
Nel curriculum del generale che per la prima volta dalla fine della Guerra Fredda sta riscrivendo i piani della difesa continentale, una specie di grande riforma della Nato, non c’è West Point. Sono menzionati invece un master in biologia a Princeton e uno in studi russi a Yale.
Il suo nome è Chris Cavoli. Oltre al russo e al francese, parla perfettamente l’italiano: è cresciuto a Roma e Verona. E da giovane paracadutista era di stanza a Vicenza. Oggi è il comandante supremo delle forze alleate in Europa, il posto che per primo aveva occupato Dwight Eisenhower.
Tuttavia non è di come Cavoli dispiegherà uomini e mezzi nei fronti Nord, Centro e Sud del nuovo sistema di difesa orientale, che da ieri a Vilnius discutono i leader politici dei 31 paesi Nato. C’è anche il premier della Svezia, futuro trentaduesimo membro dopo che i turchi hanno sciolto la loro riserva.
All’ordine del giorno sono Ucraina, Russia e Cina: quest’ultima non come possibile belligerante ma per le sue ambizioni globali che possono avere effetti sulla sicurezza europea e anche sul conflitto. Da convitato di pietra c’è come sempre l’Unione Europea con il futuro della sua difesa.
E’ tuttavia innegabile che al di sopra dei problemi, il vertice di Vilnius abbia qualcosa di trionfale. Prima che Vladimir Putin, con la sua disastrosa invasione, le regalasse l’opportunità di mostrarsi compatta e solidale; prima che anche Finlandia e Svezia bussassero alla porta, il problema della Nato era la sua ipertrofia: troppi soci per far funzionare un’alleanza, in un caleidoscopio d’interessi da Vancouver a Vilnius, da Oslo ad Ankara, attraverso tre continenti.
Il ricompattamento della Nato è una specie di resurrezione politica e militare per la quale Putin meriterebbe un monumento al quartier generale di Mons, alle porte di Bruxelles. Poca importanza è data all’unico cigolio da vecchia Nato pre-Ucraina: l’incapacità di trovare una sintesi e un successore di Jens Stoltenberg: il segretario generale uscente resterà in carica un altro anno.
Forse non c’è mai stato un vertice Nato a 32 chilometri dalla frontiera russa: dal nemico che ne rese necessaria la nascita 74 anni fa e che continua a garantirle una ragion d’essere. Il capitolo guerra in Ucraina con i suoi numerosi paragrafi, è toppo importante per lasciare spazio ad altro.
Tuttavia, anche se non ci sarà tempo per discuterne, la difesa europea resta una questione aperta. Fra poco più di un anno gli americani dovranno probabilmente scegliere fra un repubblicano al quale un tempo la legge e la morale avrebbero impedito di candidarsi; e un democratico che a 80 anni compiuti non si sarebbe mai candidato. Oggi uno dei due definirà l’immediato futuro degli Stati Uniti e, di conseguenza, della Nato. Perché la seconda senza la prima è impensabile.
Anche la condotta americana nella guerra in Ucraina dipenderà dal prossimo presidente. Ma l’eventualità è troppo preoccupante perché a Vilnius se ne parli. La discussione è come garantire all’Ucraina una sicurezza a lungo termine. Le ipotesi sono molte: dall’immediata adesione alla Nato, a quali e quante armi continuare a fornirle restandone fuori.
“Non andrò a Vilnius per divertirmi”, aveva ammonito Volodymyr Zelensky. Ma sa che l’Ucraina non entrerà presto nella Nato. Lo ha detto Joe Biden. L’articolo 5 dell’Alleanza (l’aggressione a un paese è un aggressione a tutti) costringerebbe i 31/32 a combattere.
Ieri Zelensky si lamentava di non aver sentito offrire alcuna data, durante nè dopo il conflitto, per l’ingresso dell’Ucraina nella Nato. Qualcuno invece avanza una “soluzione israeliana”. Dalla guerra del Kippur del 1973 gli Usa hanno riempito lo stato ebraico di armi e tecnologie, senza mai partecipare a nessuno dei suoi conflitti: un’alleanza implicita senza gli obblighi della versione esplicita e formale.
Israele era un fortino assediato in un Medio Oriente ostile (oggi lo è molto meno). L’Ucraina è in mezzo all’Europa. In questo caso il “long term security arrangement” proposto fino alla fine del conflitto, potrebbe diventare definitivo. I’imperialismo è nei cromosomi dei russi, potrebbe sopravvivere a un’uscita di scena di Putin. Dunque la “variante Israele” garantirebbe da nuove aggressioni senza impegnare la Nato in una rischiosa applicazione dell’articolo 5.
Il Sole 24 Ore, 12/7/23