Ha usato le armi chimiche contro il suo popolo; dai suoi elicotteri ha lanciato barili pieni di esplosivo sui civili; per salvarsi, ha permesso ai russi di fare tabula rasa delle città siriane come Putin aveva fatto in quelle cecene; ha torturato e riempito le carceri di oppositori.
Quest’uomo, Bashar Assad, ieri è stato accolto dalla Lega Araba come un fratello tutt’altro che pentito. In un certo senso si potrebbe dire che finalmente c’è qualcosa da scrivere sull’inutile Lega Araba che ormai da decenni si riuniva per non decidere nulla o litigare.
L’oftalmologo Bashar diventato più sanguinario del padre, al vertice della Lega in Arabia Saudita ritrova soprattutto sodali: generali, ex militari, presidenti, re ed emiri non molto diversi da lui nella conservazione del potere assoluto. Usando la forza delle armi, la repressione poliziesca o il denaro degli idrocarburi, moralmente non sono diversi dal siriano.
A ben guardare, è difficile trovare una regione del mondo con così tanti stati clamorosamente falliti: la Libia, il Sudan, il Libano, la piccola e un tempo promettente Tunisia. Assad è stato riabilitato ma la Siria resta smembrata; è difficile dire che l’Iraq si sia assestato dopo l’epoca di Saddam Hussein, il disastro dell’invasione americana e le pesanti interferenze iraniane.
Stati Uniti ed alcuni paesi europei hanno gravi responsabilità in questa perdurante instabilità. Ma dietro le loro colpe evidenti non possono nascondersi i protagonisti regionali. Anziché cercare soluzioni e compromessi, in ognuno dei conflitti i paesi più importanti della regione si sono schierati da una parte o dall’altra del fronte, alimentandoli. Egitto, Arabia Saudita, Emirati, Qatar non sono meno colpevoli di russi, americani e francesi. Sicuramente lo sono di più.
Le Primavere arabe erano finite da un pezzo. Ma la riabilitazione del peggiore fra i dittatori arabi – Bashar – in qualche modo trasforma quel fallimento in una tragedia più definitiva.
Il senso intrinseco di quelle proteste popolari diventate rivolte, era il desiderio di normalità. I militari dovevano lasciare il potere politico e difendere le frontiere nazionali; le polizie dovevano proteggere, non spiare, arrestare e torturare, i cittadini dei loro paesi.
Le rivolte sono fallite perché i poteri tradizionali si sono coalizzati spesso in maniera transnazionale, per sradicare qualsiasi seme di libertà e di democrazia. Solo una società civile muta e sottomessa può perpetuare il loro potere. Il compito di regni ed emirati del Golfo, protetti dalla ricchezza energetica contro qualsiasi rivolta sociale, è sempre stato questo: intervenire o finanziare per impedire che potesse nascere un paese arabo democratico. Il successo di uno avrebbe provocato una reazione a catena, come all’inizio delle Primavere le proteste popolari avevano dimostrato.
Il cancro autoritario si diffonde anche in Israele, “l’unica democrazia del Medio Oriente”. La definizione era discutibile anche prima: le libertà sono piene per gli ebrei d’Israele, meno per i palestinesi cittadini d’Israele, più del 20% della popolazione. Il Pil procapite degli ebrei è di 49mila dollari, quello dei loro concittadini palestinesi di 17 e mezzo. I nazional-religiosi, membri determinanti del governo di Bibi Netanyahu, provano per democrazia e diritti lo stesso disgusto di molti dittatori arabi.
Ora che Bashar Assad è stato riabilitato il dilemma dell’Occidente è che fare. Saranno dubbi di breve durata. Anche se non ha risorse energetiche, la Siria è un paese importante della regione. La ricostruzione che presto incomincerà è un business imperdibile. Infine, se facciamo affari con l’ex generale al-Sisi d’Egitto e il principe Mohammed bin Salman d’Arabia, tout se tient, direbbero i francesi che di queste cose se ne intendono.