Dentro le mura del Cremlino, esposto al pubblico, c’è lo Zar Pushka. Era il cannone più grande del mondo quando fu costruito nel 1586: pesava 40 tonnellate ed era progettato per sparare pietre da 800 chili ciascuna. Lo costruì l’ingegner Chokhov per ordine dello zar Fiodor che forse sperava di eguagliare la fama del padre, Ivan il Terribile. Per spostarlo sarebbero serviti quasi 400 cavalli ma lo Zar Pushka non raggiunse mai un campo di battaglia. Nè mai sparò un colpo, inservibile dal giorno che uscì dalla fonderia di Mosca.
E’ legittimo sospettare che Zircon annunciato da Vladimir Putin, il missile balistico ipersonico, capace di raggiungere in un attimo Washington e qualsiasi altro nemico al mondo, possa avere la stessa efficacia bellica del vecchio Zar Pushka. Questo e altri portenti della tecnologia militare russa entreranno in servizio a partire da gennaio. E’ la promessa di Putin ai sui generali. Nel frattempo la Russia è costretta ad acquistare droni iraniani e armi della Corea del Nord.
“Autocrate di tutte le Russie”, veniva chiamato lo zar Fiodor: una qualifica facilmente attribuibile a Putin, quasi mezzo millennio più tardi. Nel mondo parallelo dello zar Vladimir gli ucraini sono fratelli, tuttavia bisogna combattere contro di loro; non è la Russia che vuole soggiogare l’Ucraina ma l’Occidente che vuole conquistare la Russia e non ci riuscirà; alla fine l’Europa si dividerà e si arrenderà alla “liberazione” russa dell’Ucraina; la vittoria è certa e sarà raggiunta nel 2023; per ottenerla saranno date alle forze armate tutte le risorse che verranno richieste. Non si bada a spese: l’opinione pubblica cloroformizzata non protesterà.
Intanto Volodymyr Zelensky era arrivato a Washington, è andato alla Casa Bianca, è salito al Campidoglio ed è disceso al Pentagono ottenendo altri 1.850 milioni di dollari in aiuti militari. Sicuramente nel pacchetto ci saranno gli ultimi modelli di Patriot che non verranno sprecati per i droni iraniani ma per abbattere missili ben più potenti, se gli arsenali russi riusciranno ad essere riempiti di nuovo con armi migliori. Quando Putin ha mandato Dmitrji Medvedev a Pechino, in una specie di contro-mossa a sorpresa alla visita di Zelensky, Xi Jinping non ha promesso armi ma ha ribadito che la Cina “auspica una soluzione pacifica” del conflitto.
La mobilitazione americana a favore di Zelenzky non è un buon segno per chi spera in una ripresa della diplomazia. Ancor meno lo sono le farneticazioni di Vladimir Putin. La guerra continuerà almeno fino a primavera. Mettendo al comando un nuovo generale e promettendo nuove armi strabilianti, il presidente pensa a una nuova offensiva prima che il disgelo renda impraticabili i campi di battaglia.
Sarà una volta di più il tempo, il Generale Inverno a dettare le strategie. L’obiettivo potrebbe essere di nuovo Kjiv, la capitale; forse i russi vorranno solo riconquistare interamente le province dell’Est dalle quali si sono dovuti in parte ritirare sotto la controffensiva ucraina.
Gli esperti americani chiamano “last stand” questa ostinazione a rilanciare l’opzione militare a dispetto della realtà sul campo. L’ultima resistenza prima del disastro, quasi un sinonimo di sconfitta imminente. Era stato chiamato così anche l’inutile tentativo di resistere del generale Custer, accerchiato dai Sioux a Little Big Horn. La soluzione migliore per impedire questo disastro che non riguarderebbe solo Putin ma l’intera Russia, sarebbe un colpo di palazzo a Mosca. Ma dopo averci creduto per un po’, anche le intelligences occidentali non pensano sia un’ eventualità credibile. E’ come se Putin avesse superato una invisibile linea rossa oltre la quale per la sua sopravvivenza non c’è altra opzione se non la guerra ad oltranza.
Senza contare gli ultimi aiuti acquisiti dalla visita di Zelensky a Washington, dall’inizio del conflitto l’Ucraina ha ottenuto dall’Occidente (democrazie asiatiche comprese) 95 miliardi di dollari in aiuti militari: armi, equipaggiamento, logistica, addestramento. Di questi, 85 miliardi sono stati garantiti dagli Stati Uniti. E’ piuttosto ovvio che nel suo primo viaggio fuori dall’Ucraina, Volodymyr Zelensky abbia scelto Washington e non Bruxelles o una delle principali capitali d’Europa.
Proprio per quegli 85 miliardi di dollari, è però difficile pensare che dietro gli squilli di tromba e il rullo dei tamburi, Joe Biden abbia solo donato senza chiedere nulla in cambio; che non abbia avanzato a Zelensky qualche ipotesi di orizzonte diplomatico. Il mantra di questi mesi alla Casa Bianca, a Bruxelles, nelle cancellerie europee è sempre stato: “Saranno gli ucraini aggrediti a decidere come e quando dovrà esserci la pace”. E’ vero ma non completamente. Con tutto il rispetto e la comprensione necessarie, chi sta aiutando l’Ucraina a resistere da dieci mesi e ora forse a vincere, ha acquisito il diritto di avere un’opinione autorevole.
Chi propone con urgenza una conferenza di pace sull’Ucraina, sa poco di questo conflitto e nulla di diplomazia. Una conferenza è il punto d’arrivo, non di partenza, di un processo negoziale difficile: quello eventuale sull’invasione russa è particolarmente complicato. Ed è probabile che quel processo sia in corso da tempo, forse anche prima della marcia trionfale di Zelensky a Washington. In realtà il senso di questo conflitto e i confini dentro i quali attivare un negoziato sono piuttosto chiari: l’Ucraina deve vincere, la Russia non può perdere. Come trasformare una contraddizione in realtà possibile, è una questione di dettagli.