Nel 2015, quando fu firmato il compromesso che avrebbe impedito la costruzione dell’atomica iraniana, i vertici della sicurezza d’Israele furono inaspettatamente tra i suoi più fermi sostenitori. Nonostante il premier Netanyahu e il suo governo di allora ne fossero i più dichiarati oppositori. Generali, capi del Mossad e delle altre intelligences del paese, in servizio e in pensione: a favore non perché quell’accordo fosse perfetto – nella storia della diplomazia non ne esistono di questo tipo – ma perché per dieci anni le eventuali ambizioni di Teheran sarebbero state tenute sotto controllo. Infine perché ci sarebbero state solo due alternative: convivere con un’Iran nucleare o bombardare l’Iran.
Ma nel 2018 Donald Trump, con l’attivo sostegno di Bibi Netanyahu, decise di uscire da quell’accordo chiamato JCPOA, Joint Comprehensive Plan of Action. Era stato negoziato per anni da americani e iraniani con la partecipazione e la mediazione di Francia, Gran Bretagna, Germania, Russia, Cina e Ue: il 5+1 nel quale c’era anche l’Italia, prima che il governo Berlusconi decidesse di uscirne. Rompendo l’accordo, Trump impose di nuovo e aggravò le sanzioni che il piano d’azione aveva eliminato.
Da allora a oggi, è accaduto quello che i generali israeliani e tutti i sostenitori del JCPOA temevano. Gli iraniani possedevano una scorta attorno al 3% di uranio arricchito: per creare una bomba l’arricchimento deve arrivare al 90. Ora sono al 60%. Nel frattempo gli estremisti hanno scalzato i moderato dal governo a Teheran.
Nonostante questo, sembra che un miracolo negoziale stia per essere realizzato. Le parti, soprattutto americani e iraniani, sembrano vicini a un nuovo accodo elaborato dall’Unione Europea. I dettagli non sono ancora noti ma dovrebbe essere lo stesso compromesso del 2015, riveduto e corretto in qualche parte. Alcune richieste iraniane dell’ultima ora sarebbero state scartate: gli americani non vogliono escludere le Guardie della rivoluzione dalla lista delle organizzazioni terroristiche; e non possono garantire che un nuovo presidente non esca di nuovo dall’accordo. In cambio Joe Biden chiude un occhio sull’espansionismo iraniano in Medio Oriente e sul suo programma missilistico.
A parte la possibilità che la fine delle sanzioni consenta all’Iran di accedere a circa 100 miliardi di dollari di riserve valutarie, fino ad ora la sostanza del JCPOA era geopolitica. Gli scopi principali erano impedire una corsa al riarmo nucleare in Medio Oriente, rafforzare la sicurezza nel Golfo, tenere sotto controllo le ambizioni iraniane, tranquillizzare sauditi e israeliani, potenzialmente i più minacciati da un’atomica.
Ora la questione prioritaria di una rinascita dell’accordo del 2015, è energetica. L’Iran possiede il 16% delle riserve mondiali di gas (secondo solo alla Russia) e il 9 del petrolio (quarto nel mondo). In questi anni sotto sanzioni hanno venduto molto gas alla Cina e un po’ all’India. Oggi l’Occidente ha bisogno di quelle risorse per ridurre più rapidamente la dipendenza dalla Russia e abbassare il prezzo sul mercato globale. Anche l’Iran ha bisogno dei nostri investimenti. Ma se l’accordo rientrerà in vigore, servirà qualche anno perché quel gas naturale realizzi i nostri scopi. Per uscire dalla depressione sanzionatoria di questi anni l’Iran ha bisogno di nuovi investimenti nel settore del gas. Per aumentare la produzione ora da 270 miliardi di metri cubi l’anno, e intaccare le riserve da 30mila miliardi, servono almeno 80miliardi di dollari.
Il Sole 24 Ore, 19/8/2022