Quando un giornalista va in zona di guerra, sa di rischiare la vita. Anche se con elmetto e giubbotto anti-proiettile blu e la scritta PRESS, accetta di non poter pretendere più garanzie di sicurezza dei combattenti che gli stanno attorno. Non esiste salvacondotto.
Questo tuttavia, in caso di morte, non vanifica il diritto di scoprire come sia stato ucciso e se di questa tragedia ci sia qualcuno più responsabile di altri. Perché alla fine il giornalista non è un combattente.
Sembra che non esista questo diritto di sapere, o quanto meno sia estremamente fragile, riguardo alla morte di Shireen Abu Akleh, la corrispondente dalla Palestina della tv al-Jazeera, uccisa l’11 maggio mentre era in servizio a Jenin: con elmetto e giubbotto d’ordinanza giornalistico, facilmente distinguibile a distanza.
Sin dall’inizio è stato chiaro che gli spari venissero da dove erano schierati i soldati israeliani. E che dall’altra parte, dove si trovavano Shireen e altri giornalisti, non ci fossero miliziani palestinesi armati. Anche il proiettile che l’aveva uccisa sembrava sparato da un’arma in dotazione agli israeliani e non ai miliziani palestinesi. Idf, le forze armate israeliane, avevano tuttavia concluso che il caso non meritasse un’inchiesta. Incidente chiuso.
Poi ci furono i funerali di Shireen nella Gerusalemme occupata, dove lei era nata. La polizia di frontiera mostrò tutta la sua già nota brutalità, bastonando i partecipanti alle esequie: perfino coloro che reggevano la bara, facendola quasi cadere a terra. Poche immagini quanto quelle avevano minato la presunzione israeliana di avere forze di sicurezza dallo spirito umanitario.
Intanto Cnn e New York Times, testate notoriamente non arabe, avevano condotto due inchieste giornalistiche per arrivare alla medesima conclusione: Shireen era stata uccisa dagli israeliani, secondo la Cnn intenzionalmente.
Come in tutti gli altri casi simili, lo Stato ebraico le aveva prese per lesa maestà. Con una serie d’interventi di dubbio gusto, era stata mobilitata l’attrice Noa Tishby, più famosa per essere la “special envoy” israeliana sull’antisemitismo che per i suoi film. Il punto di Tishby era: dal 1990 al 2022 nel mondo sono stati uccisi 2.658 giornalisti. Perché tutto questo baccano per Shireen e non per gli altri 2.657? Posto che fosse vero – e non lo era – la risposta era scontata: antisemitismo. Peggio: “subconscious antisemitism”.
L’egiziano al-Sisi e il turco Erdogan usano la definizione “terrorista” per chiunque li contesti. Gli israeliani “antisemita”, molto più infamante. Scrivendo questo articolo, dunque, rientro nella categoria degli antisemiti inconsapevoli. Tanti anni fa, quando non esisteva Twitter, i lettori scrivevano lettere. Trovo più onesta quella persona che al mio giornale ne mandò una anonima che mi accusava di educare i miei figli all’antisemitismo. Perché Tishby è più subdola. “Purtroppo giornalisti vengono uccisi nel mondo ogni settimana senza la stessa reazione globale”, aveva scritto l’attrice, ribaltando con un tweet la realtà: Sharin non era una vittima ma una privilegiata rispetto agli altri colleghi morti nel disinteresse generale: e lei, la fustigatrice della stampa antisemita, si trasfigurava in Santa Noa dei Giornalisti. Credo non esista un modo più efficace per banalizzare un cancro orribile e pericoloso come l’antisemitismo.
Nonostante il suo impegno, alla fine un’indagine ufficiale c’è stata. Ma solo perché Shireen Abu Akleh aveva un passaporto americano e Joe Biden arriverà in Israele fra una settimana in visita di Stato. Gli israeliani, tuttavia, continuavano a pretendere che la ricerca del colpevole fosse affidata a loro. Cioè ai principali sospettati.
Il nodo è stato sciolto dall’U.S. Security Coordinator, l’ufficio dell’ambasciata americana che si occupa dei rapporti fra governo israeliano e Autorità palestinese, inutilmente cercando di promuoverli. Ha avuto dai palestinesi il proiettile che ha ucciso Shireen e, sotto la sua supervisione, l’ha fatto analizzare dagli israeliani: un compromesso probabilmente imposto ai due nemici per non creare ostacoli alla visita presidenziale. Biden andrà anche a Ramallah da Abu Mazen. Gli americani comunque smentiscono di aver lasciato fare agli israeliani che invece confermano.
Il risultato dell’inchiesta è una specie di Comma 22: dice tutto e il suo contrario. I palestinesi sono autorizzati a fingersi traditi; gli israeliani a dare la loro versione; gli americani ad avvicinarsi alla verità ma con cautela. Dicono le forze armate israeliane: la fonte della sparatoria “non può essere determinata”, il proiettile è troppo danneggiato per stabilire da quale arma sia partito. Lo dicono anche gli americani, sul proiettile. Ma aggiungono che è uno sparo partito dalle posizioni israeliane ad essere “probabilmente” responsabile della morte di Shireen.
Non c’è “ragione di credere che fosse intenzionale”. Ci sono invece tanti motivi per crederlo, come sostiene Cnn. Probabilmente non volevano uccidere Shireen ma forse un giornalista. E’ difficile non distinguere elmetti e giubbotti blu. Nella loro infantile e inutile tauromachia i giovani della Jihad Islamica si vestono da truppa d’assalto.
Nel suo comunicato finale e tombale sulla verità dei fatti, l’Idf garantisce che “combatterà il terrorismo” ma userà “misure e precauzioni per evitare di nuocere ai non combattenti”. Sarebbe ora.
Qualche mese fa lo stesso Esercito aveva constatato con preoccupazione il gran numero di palestinesi uccisi quest’anno nei territori occupati. Da tempo i soldati sparano per uccidere, avendo la certezza dell’impunità; proteggono i coloni israeliani aggressori e non i contadini palestinesi aggrediti; i giovani arabi che lanciano pietre sono entrati nella categoria “minaccia mortale”: “terrorismo delle pietre” l’ha chiamato l’ambasciatore israeliano all’Onu. Quindi si possono uccidere.
A volte muoiono anche ragazzini che vanno a scuola; o donne anziane “dall’atteggiamento sospetto”, come recentemente è stato giustificato l’omicidio di una palestinese a Betlemme. Secondo l’ufficio Onu a Gerusalemme, il numero dei palestinesi uccisi nei primi sei mesi dell’anno è del 46% superiore allo stesso periodo del 2021.
Dal Mediterraneo al fiume Giordano ebrei e arabi ormai si equivalgono demograficamente: siamo già 200mila di più, aveva precisato a Mario Draghi il premier palestinese Mohammed Shtayye. Eppure, per un numero crescente d’israeliani – politici e opinione pubblica – sembra che i palestinesi non esistano. Invece ci sono, cosa vogliono farne gli israeliani?, si era chiesto il Patriarca Pierbattista Pizzaballa, dopo l’aggressione al funerale di Shireen.
Intanto sono passati due mesi. E della fine di Shireen tutto ciò che sappiamo per certo, è una sola cosa: è morta un’altra giornalista che non avrà mai la giustizia che avrebbe meritato. Come la grande maggioranza dei 2.657, caduti nel tentativo d’informarvi.