La guerra non è che “sangue, sudore e merda”, scrisse sul Times di Londra William Howard Russell. Era il 1854, conflitto di Crimea. Fino a quel momento l’immagine falsa e lontana che le opinioni pubbliche avevano di una battaglia era l’avanzare ordinato della fanteria, l’eroica carica delle cavallerie, tamburini e divise sgargianti. Russell racontò un’altra storia, quella vera. E fu promosso sul campo come primo vero corrispondente di guerra nella storia del giornalismo.
Le prime immagini lente e sfocate sulla Marna e la Somme incominciarono a darci un’idea dei massacri del 1914. Come quelle drammaticamente mosse dei rangers americani, scattate da Robert Capa la mattina del 6 giugno 1944 a Omaha Beach: la più sanguinosa delle spiagge dello sbarco in Normandia. La liberazione del Kuwait nel 1991 fu la prima guerra di una all news via cavo, la Cnn; e l’invasione dell’Iraq del 2003 la prima di una all news satellitare non occidentale, Al Jazeera.
Come dicono alcuni esperti, questa in Ucraina sarà ricordata come “la prima guerra dei social-media”. Possiamo considerala come un’altra tragica sottovalutazione di Vladimir Putin e del suo gruppo di potere: dopo quella della capacità di resistenza dei soldati ucraini, della compattezza di Nato ed Eu, e la sopravvalutazione delle capacità dell’esercito russo. The Economist scrive che questo conflitto è diventato “l’esempio più vivido di come i social stiano cambiando il modo in cui la guerra è raccontata, vissuta e capita, e di come questo può cambiare il corso della stessa guerra”.
La foto postata sui social di un trattore ucraino che tira un carro armato russo colpito o in avaria, per liberare una strada di campagna, è diventato un meme mondiale: un simbolo della resistenza e forse della vittoria. O pensate a Volodymyr Zelensky al quale basta uno smartphone per smentire la propaganda russa che lo voleva fuggito da Kyiv; e contemporaneamente a Vladimir Putin nella grande sala zarista del XIX secolo, a capo di una tavola distante da tutto: dai suoi sottoposti e dalla realtà.
Putin governa da 22 anni, Zelensky dal 2019. Ma il secondo è stato un attore televisivo e – piaccia o meno – questo oggi è un vantaggio. Si sa porre sulla scena come la gente vuole, dice ciò che piace sentire; tono di voce e sguardo mutano a seconda delle esigenze. Il volto di Putin è come quello di Leonid Breznev: diverso ma ugualmente inespressivo.
Nel 2015, quando gli aerei russi bombardavano a tappeto Aleppo, il 30% dei siriani era online; secondo l’Onu oggi il 75% degli ucraini usa internet. Nel 2014, quando Putin invase la Crimea, il 4% degli ucraini avevano un cellulare con una connessione 3G; ora sono l’80% agganciati a una rete ad alta velocità; allora il 14% aveva uno smartphone, nel 2020 più del 70.
Poiché questa guerra è un evento mondiale, a rafforzarne la definizione di primo conflitto dei social-media è utile ricordare che i social sono usati da 4,6 miliardi di esseri umani: il doppio che nel 2014. Risultato della capacità di raccontare la giusta narrativa, usando i mezzi appropriati: prima della guerra gli ucraini erano considerati “amici” dal 55% degli americani; oggi lo sono dall’80. Un consenso al quale non arrivano antichi alleati come francesi e giapponesi.
Nella resistenza all’aggressione russa, il trentunenne Mikhailo Fedorov, il ministro per la trasformazione digitale, è diventato importante quanto il collega della Difesa e i generali dello Stato Maggiore. In una chat aperta su Telegram, il ministero riceve 10mila messaggi al giorno: cittadini che fotografano le colonne russe, che informano sugli spostamenti del nemico, che ne filmano i crimini. “In questi giorni ognuno è un information warrior”, spiega un funzionario del ministero. Il loro contributo non è meno prezioso di quello dell’intelligence.
Eppure i russi sono i maestri della disinformacjia, delle verità alternative che hanno perfino contribuito a far eleggere un presidente americano sbagliato. Il successo ucraino anche su questo campo di battaglia è piuttosto semplice: perché gli aggrediti sono sempre più simpatici e credibili degli invasori; e perché diversamente dalla propaganda russa, gli ucraini non raccontano bugie: o meglio, ne raccontano ma molto meno degli avversari. Le loro sono soprattutto testimonianze della vita reale ai tempi di un’invasione incontrovertibilmente vera. Anche nell’immenso e manipolabile mondo virtuale, alla fine la vita reale ha più successo delle balle.
Quando andavo nelle zone di guerra c’era sempre qualche collega che inventava reportage da fronti nei quali non aveva mai messo piede. Senza le tecnologie di oggi, allora era più facile farlo e non essere scoperti. Un Lonely Planet sulla scrivania della stanza d’albergo, per non sbagliare i nomi dei luoghi, e via di fantasia: scontri sanguinosi mai combattuti, i volti di soldati inesistenti, il profumo del vassoio del room service trasformato nell’ “acre odore della cordite”, l’intervista sotto le bombe a un generale che invece stava al quartier generale. Quei colleghi non hanno mai capito che facendo solo la fatica di esserne testimoni, la realtà era sempre più sorprendente di qualsiasi esagerazione. Nemmeno Putin lo ha capito.