Quindici anni di guerra civile, dal 1975 al ’90, non erano stati capaci di distruggere il porto di Beirut e i quartieri limitrofi quanto la sola esplosione del 4 agosto dell’anno scorso. Questo, dunque, dovrebbe essere un anniversario per ricordare le vittime e celebrare una ricostruzione.
Più dell’aeroporto, il porto di Beirut è il principale ingresso di un’economia soprattutto finanziaria, che non produce quasi nulla e acquista dall’estero quasi tutto. Dovrebbe essere al centro dell’interesse nazionale. Ma laggiù quello che si possa definire un interesse nazionale è difficile da scovare. C’è il forte senso di appartenenza alla setta religiosa; al partito o ai partiti che ne sono la conseguenza politica. Per questo il porto e la città sono come l’anno scorso, a parte un po’ di macerie.
In fondo, il primo anniversario di quella tragedia è solo una notizia di scarsa importanza. Quello che conta e preoccupa veramente è che il Libano prosegua la sua immersione in una crisi economica senza uscita: in un’area metropolitana di oltre due milioni di abitanti, in più di 900mila – 600mila dei quali minori – vivono al di sotto della soglia di povertà, secondo Save the Children. E conta che la politica non sia in grado di offrire una soluzione.
E’ stato ormai appurato che al porto fu un incidente, non un attentato. Circa 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio erano state stivate senza le necessarie precauzioni, nel 2014, e da allora nessuno se ne era preoccupato. L’esplosione e i suoi resti sono solo una conseguenza del catastrofico fallimento libanese, l’ultimo monumento all’irresponsabilità della sua classe politica.
Hassan Diab, un indipendente senza partito, era stato nominato premier nel gennaio del 2020 in seguito a imponenti manifestazioni popolari di protesta contro il sistema. Dopo l’esplosione di agosto l’occasionale premier aveva dato con coerenza le dimissioni. “Ma questo è l’unico lavoro dal quale ti dimetti e poi sei bloccato al tuo posto”, aveva detto Diab la scorsa primavera. Un anno dopo aver rassegnato il mandato, infatti, Diab è tecnicamente ancora lì, in via permanentemente provvisoria.
Il sistema politico libanese che avrebbe l’urgenza di fare riforme vitali, quell’urgenza in realtà non dimostra di averla. A luglio il sunnita Sa’ad Hariri, incaricato di formare un governo, aveva litigato con il presidente cristiano Michel Aoun; e qualche giorno fa quest’ultimo ha dato il mandato a Najib Mikati, anche lui sunnita, uomo d’affari e miliardario come Hariri (secondo Forbes vale 2,7 miliardi di dollari). Se Mikhati riuscirà a mettere insieme un esecutivo avrà gli stessi volti e la stessa fisionomia politica e in gran parte patrimoniale degli altri governi passati.
Ho un legame particolare con il Libano. Nel 1983 facevo il cronista comunale a Milano per il Giornale di Montanelli. Un giorno “Il Vecchio” mi chiamò, mi chiese se avevo un passaporto e mi disse “allora vai a stare per un po’ a Beirut”. Quella città e il paese furono il mio battesimo da giornalista di esteri, inviato di guerra e corrispondente. Bombardato o in ricostruzione, a chiunque lo visiti il Libano entra sotto la pelle: nel mio caso ha proseguito fino al cuore.
Non essendo cambiato nulla dall’esplosione dell’anno scorso, avrei potuto riproporvi il blog dell’anno scorso, “Pity the Nation”https://ugotramballi.blog.ilsole24ore.com/2020/08/07/pity-the-nation-pieta-libano/. Ma sarebbe stato come ignorare un’amante in difficoltà che tanti anni fa mi aveva aiutato a crescere, come uomo e come giornalista.
Michel Aoun è cristiano, Hariri e Mikhati musulmani sunniti perché così prevede la spartizione settaria del potere libanese. Ogni confessione ha un incarico governativo, statale, militare, economico. Questo meccanismo permise al Libano di uscire dalla sua guerra civile e per diversi anni ha anche garantito una forma di democrazia: anomala ma con pochi paragoni nel mondo arabo.
Ora quella intelaiatura è diventata una trappola che ha trasformato il Libano in un’entità feudale irriformabile, nella quale ogni capo confessionale è il signore del suo territorio. Se in quel gruppo settario ci sono più partiti, questi ultimi lottano per la conquista del feudo, non per il benessere del Libano nel suo insieme.
Ogni signore ha un padrino esterno: l’Iran, l’Arabia Saudita, il Qatar, la Francia; anche il siriano Bashar Assad, pericolosamente convinto di aver vinto la sua guerra civile. Ora si è aggiunta la Turchia perché Recep Erdogan sogna di riconquistare un’influenza il quello che fu il vilayet – la provincia – forse più bello dell’impero ottomano.
Tolti i palestinesi e aggiunte le milizie Hezbollah, il Libano di oggi è lo stesso che nel 1975 andò incontro alla sua guerra civile e che vi ci rimase per quindici anni. Il demone e i suoi signori feudali sono sempre al loro posto.