E’ bello che il Premio Strega di quest’anno sia andato a “M – Il figlio del secolo” di Antonio Scurati, che racconta la volenza del fascismo fin dal suo primo vagito. Serviva un po’ di conforto a chi crede ancora all’utilità della democrazia liberale. Ancora di più, il libro servirà a insegnare alle generazioni più recenti cosa fu davvero il fascismo.
I segni d’ignoranza della Storia si moltiplicano sempre di più. E’ sempre più forte la tentazione di ripetere l’esperienza autoritaria come mezzo per risolvere rapidamente problemi complessi che invece richiedono tempo e consenso (crisi economiche, disoccupazione giovanile, impatto delle tecnologie, migrazioni, deficit, confronto politico). Se diamo uno sguardo alle vicende internazionali, i più attivi nel tentare di mutare le geopolitiche note, sono i paesi illiberali.
Un paio di settimane fa, prima del vertice G20 in Giappone, era stato Vladimir Putin a palesare l’offensiva autoritaria in corso da anni: la democrazia liberale è un sistema di governo “obsoleto”, aveva detto in un’intervista al Financial Times. Lo dice lui che per uscire dalla palude sovietica nella quale stagnava il suo grande paese, ha ripristinato il modello nazionalista e reazionario zarista. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensa Matteo Salvini nel cui guardaroba non mancano le felpe con scritto “Putin”.
Nell’attesa che ci dica se ritiene superato il modello democratico nel quale vive e opera, segnali preoccupanti vengono dal governo giallo-verde del quale Salvini è uno dei leader. Oltre ad avere impedito alla Ue di prendere una posizione comune contro il Venezuela di Nicolàs Maduro, siamo l’unico paese occidentale che invoca la fine delle sanzioni alla Russia e l’unico ad essere entrato nella Via della Seta cinese.
Nell’entusiasmo che la visita di Putin a Roma ha suscitato nel premier Giuseppe Conte, in molti imprenditori, in numerosi giornali e televisioni, nessuno si è chiesto perché la Ue avesse deciso quelle sanzioni. Nessuno ha parlato dell’aggressione all’Ucraina né dell’annessione militare della Crimea. Era come se gli altri paesi europei si fossero divertiti a imporre quelle dolorose sanzioni per punire l’innocente Putin e, naturalmente, l’economia italiana.
Contenti di aver venduto a Xi Jinping le arance siciliane, nessuno si era nemmeno chiesto se nella Via della Seta si nascondesse qualche tranello geopolitico; né si era domandato perché gli altri paesi occidentali non avessero preso impegni così vincolanti col regime che risolve i problemi con la sua minoranza etnico-religiosa degli uiguri, rinchiudendo nei lager centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini.
Anche per l’Italia è importante avere buoni rapporti con un gigante politico come la Russia e uno economico come la Cina. Ma se non per una forma di attrazione per sistemi illiberali che affrontano e spesso risolvono i loro problemi senza il fardello di minoranze politiche, sindacati e stampa libera, perché impegnarci così? Senza promettere a Putin di battersi contro le sanzioni, senza aderire al geniale ma megalomane progetto di Xi, i nostri partner europei intrattengono con quegli autocrati rapporti politici più profondi del nostro. Ed economicamente fanno affari più vantaggiosi dei nostri.
Nella parata globale degli autocrati alla riscossa non poteva mancare il Caro Leader Donald J. Trump, 45° presidente degli Stati Uniti. Di parata vera si è trattato, il pomeriggio del 4 di luglio sul Mall e davanti al Lincoln Memorial di Washington. Il militarismo è sotto pelle in ogni cittadino americano con ogni presidente; seppur raramente, veicoli e aerei militari avevano già sfilato in passato; a Parigi e a Roma i soldati marciano nel tripudio popolare anche quando governano i socialisti.
Ma a parte qualche film di Hollywood, l’Independence Day è sempre stata una festa di popolo e contemporaneamente intima. Forse perché l’eccezionalismo del paese con la sua presunzione di perseguire la felicità (non di garantirla, come promettono le autocrazie, ma di provare a raggiungerla: non è una differenza da poco), si fonda sulle libertà individuali.
Ed ecco che arriva Trump a trasformare il 4 di luglio in un’arrogante parata putiniano-cinese di potenza militare. Un discorso di 47 minuti, “La nostra nazione non era mai stata forte come adesso”, “Per gli americani niente è impossibile”. Più un’apertura di campagna elettorale che una festa nazionale. I fuochi d’artificio esplosi a sera da El Paso al New England, hanno fatto tornare la festa alle sue tradizioni più popolari e democratiche.
Ma i tempi sono duri per tutti coloro che pensano “M” sia solo un romanzo storico. Ai nostri giorni per cambiare le regole democratiche non servono più stivali, bastoni e balilla. A fine giugno la Corte Suprema americana a maggioranza repubblicana ha negato alle corti federali il diritto di agire contro il jerrymandering: l’abitudine dei governatori repubblicani di modificare i confini dei distretti elettorali, quando la maggioranza degli elettori diventa democratica. “Buona notte e buona fortuna” diceva Ed Murrow alla fine del suo talk show sulla CBS, ai tempi del maccartismo: in fondo non così tanto tempo fa.
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